Gli stupri di massa come arma di guerra e arma di pace

Anticipiamo la prefazione di Annamaria Rivera al volume “Stupri di guerra e violenze di genere” (Ediesse).


[…] Se il Novecento, in particolare, è stato epoca di violenze e stermini di dimensioni e intensità immani, è anche vero che essi –come ci ha ricordato tra gli altri Zygmunt Bauman (1992) – sono stati resi possibili dalla razionalità tecnologica e burocratica europea, dallo sviluppo della scienza e della tecnica: ragion per cui niente ce ne garantisce l’irripetibilità. Tanto è vero che un cinquantennio [dopo Auschwitz] la guerra civile nell’ex Jugoslavia avrebbe squadernato molti orrori collaterali, per così dire, per certi versi simili a quelli che hanno contraddistinto lo sterminio nazista e altri genocidi novecenteschi.

Nondimeno, sotto traccia continua ad agire l’ideologia che, fin da certe interpretazioni storiografiche, attribuisce a sacche di arretratezza, primitivismo e irrazionalità lo scoppio di conflitti regionali e guerre civili: spesso letti come esplosione periodica di odi ancestrali tra gruppi detti etnici (Dei, 2005).

La cronaca della guerra fratricida jugoslava, con epurazioni e stupri “etnici” sistematici – per meglio dire, ginocidi (Paciucci, 2010) –, ha rappresentato il trionfo del paradigma e delle designazioni etnicizzanti, che in tal modo, affermandosi come un dato di fatto indiscutibile, si sono consolidati anche nel linguaggio corrente. In realtà, la concezione primordialista dell’appartenenza, dell’identità, degli stessi conflitti è stata usata come strumento ideologico e di propaganda dagli stessi belligeranti (Hayden, 2005). E così ha contribuito a occultare o minimizzare il peso dei fattori economico-sociali, il gioco degli opposti nazionalismi, il riemergere del disegno egemonico della “grande Serbia”, le strategie delle potenze europee, tendenti a soffiare a proprio vantaggio sul fuoco delle rivendicazioni separatiste (v. Rivera, 2012: 126-128). Soprattutto ha dissimulato un fattore decisivo: “le élite politiche uscite dal comunismo investirono il loro capitale politico nelle sciagurate imprese nazionaliste col solo scopo di mantenersi al potere e di riuscire a gestire le transizioni al capitalismo” (Paciucci, 2010).

Non molto diversamente, il conflitto in Ruanda e Burundi, culminato in genocidi e stupri di massa, è stato sottoposto a una lettura in chiave rigidamente etnicista, identitaria, tribalista, che ha lasciato completamente in ombra altre logiche ancor più determinanti e trascurato il suo carattere di conflitto economico, sociale e politico.

Per dirla con le parole dello storico Alessandro Triulzi (1996: 37), sebbene si sia espresso nelle forme più atroci, quel conflitto si è rivelato per molti versi di una “terrificante modernità”: non solo in quanto risultante locale “di complessi processi di ricomposizione degli assetti societari e politici”, ma anche perché la strategia dell’annientamento e degli stupri sistematici è stata concepita e pianificata da élite intellettuali urbane e “si è basata su sofisticate tecniche mediatiche” (ivi: 31).

Nel primo come nel secondo caso, gli stupri di massa sono stati usati come arma bellica, finalizzata a contaminare le donne “altrui” col proprio seme-essenza etnica, a costringerle a procreare figli “bastardi”, oltre che a umiliare, disonorare, piegare gli uomini della parte avversa.

La violazione sistematica delle donne rivela anche – come osserva l’antropologa Françoise Héritier (1997) – l’idea perversa che la pretesa identità etnica sia qualcosa di così essenziale e naturale da poter essere trasmessa attraverso il seme maschile. Non va trascurato un altro movente: quello dell’incertezza categoriale e dell’angoscia suscitata dal troppo simile, sicché lo stupro è anche un mezzo per alterizzare il gruppo avverso o nemico e così affermare, ristabilire o rafforzare, per quanto illusoriamente, la propria identità (Rivera, 2010: 96).

Sia pure en passant, conviene richiamare l’attenzione su un paradosso: l’ingannevole “utopia”, propria del nostro tempo, di una guerra “a zero morti”, chirurgica, asettica, incruenta, affidata alla presunta infallibilità dei droni, convive con la realtà dei conflitti odierni che usano e abusano di corpi, anche e soprattutto femminili. Un altro paradosso è dato dal fatto che, con lo stato permanente di guerra asimmetrica e non-dichiarata, si sia affermata una sostanziale indistinzione tra guerra e pace, spazio interno e spazio esterno, funzioni civili e funzioni militari (Kilani, 2008).

È anche per questo che lo stupro si configura non solo come arma di guerra, ma anche come arma di pace, e in un duplice senso. Anzitutto: le violenze sessiste, fino allo stupro e al femminicidio (o femicidio, come preferiscono dire alcune studiose), sono un dato strutturale dell’ordine patriarcale, il rumore di fondo, potremmo dire, cui si sovrappone il ricorrente fragore degli stupri bellici. In secondo luogo e per riferirci ai tempi presenti: dacché esistono le forze di pace internazionali, il cosiddetto peacekeeping tende a caratterizzarsi per una ricorsività allarmante di violenze, stupri, prostituzione forzata, sfruttamento e ricatti sessuali, esercitati dai “portatori di pace” contro le popolazioni civili, soprattutto donne, ma perfino bambine e bambini.

Il caso di Ibis, operazione condotta dai parà della Folgore, nell’ambito di Restore Hope (1992-‘95), intervento dei Caschi blu nella Somalia devastata dalla guerra civile, è solo una manifestazione tra le più emblematiche e più note di questo crudele paradosso. Ricordiamo che i parà italiani si macchiarono di violenze atroci, anche sessuali, per le quali nessuno di loro è mai stato condannato. Tra gli episodi più orrendi e più noti vi sono quelli di una giovane somala stuprata con un razzo illuminante e di un prigioniero torturato con elettrodi applicati ai genitali.

Prima e dopo questo caso – e fino a oggi, nonostante gli innumerevoli rapporti internazionali, le raccomandazioni e le condanne dell’Onu e di altre istituzioni–, episodi analoghi o ben peggiori si sono susseguiti con una regolarità allarmante nei più vari contesti: per limitarci agli anni Duemila, in Eritrea, Burundi, Liberia, Guinea, Sierra Leone, Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Benin, Sud Sudan… E, assai recentemente, di nuovo in Somalia, come documenta un rapporto del 2014 di Human Rights Watch; nonché, secondo notizie trapelate nel 2015, nella Repubblica Centroafricana e ancora ad Haiti.

Secondo un’indagine dell’Internal Oversight Services, organismo delle stesse Nazioni Unite, nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 i Caschi blu si sarebbero resi responsabili di ben quattrocentottanta casi di sfruttamento e violenze sessuali, un terzo dei quali ai danni di minori.

Potremmo aggiungere che sono proprio lo sfruttamento e la violenza sessuali a costituire il trait d’union più evidente tra la sfera dei crimini di guerra e quella dei crimini di pace, per definirla in termini basagliani. Ricordo che nel 1975 Franco Basaglia, in collaborazione con Franca Ongaro Basaglia, proponeva la nozione di crimini di pace come chiave per la comprensione del
le violenze prodotte nell’ambito della “normalità” quotidiana. Il riferimento era prima di tutto alle istituzioni totali, certo, ma il concetto si estendeva a un’ampia serie di pratiche di subordinazione e disciplinamento del corpo e della mente che, de-umanizzando e reificando particolari categorie di persone, ne cancellano la dignità personale. Forse sarebbe utile riprendere questa nozione, anche per analizzare più a fondo la continuità e la dialettica fra tempo detto di pace e tempo di guerra.

Riferimenti bibliografici

Basaglia Franco, Basaglia Ongaro Franca (a cura di), 1975, Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, Torino.
Bauman Zygmunt, 1992, Modernità e Olocausto, Il Mulino, Bologna (ed. or. Modernity and Holocaust, Basil Blackwell, Oxford 1989).
Dei Fabio, 2005, “Descrivere, interpretare, testimoniare la violenza”, in: F. Dei (a cura di), Antropologia della violenza, Meltemi, Roma, pp. 7-75.
Hayden Robert M., 2005, “Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione e pulizia etnica in Jugoslavia”, in: F. Dei (a cura di), op. cit., pp.145182.
Héritier Françoise, 1997, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Bari (ed. or. Masculin/Feminin. Le pensée de la différence, Odile Jacob, Paris 1996).
Human Rights Watch, 2014, The Power These Men Have Over Us. Exploitation and Abuse by African Union Forces in Somalia, September 8, 2014: http://www.hrw.org/reports/2014/09/08/power-these-men-have-over-us
Kilani Mondher, 2008, Guerra e sacrificio (pref. e cura di A. Rivera; trad. di V. Carrassi), Dedalo, Bari (ed. or. Guerre et sacrifice. La violence extrême, Presses Universitaires de France, Paris 2006).
Paciucci Gianluca, 2010, “Lo scandalo Sarajevo” (dalla rivista Guerre&Pace, 2007), in: GlobalProject, 23 agosto: http://www.globalproject.info/it/community/lo-scandalo-sarajevo/5601
Rivera Annamaria, 2010, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma. 2012, “Etnia-Etnicità”, in: R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera, L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave (trad. di A. Rivera, D. Pozzi, E. Savoldi), Dedalo, Bari, pp. 123-151.
Triulzi Alessandro, 1996, “Ruanda perché. Guerra e pace ‘a bassa intensità’ in Africa”, Giano, n. 24, pp. 29-40.

(9 febbraio 2016)

 

fonte: https://archivio.micromega.net/gli-stupri-di-massa-come-arma-di-guerra-e-arma-di-pace/