Il carattere sistemico del razzismo odierno

        (…) In realtà, riducendo il razzismo a “odio”, si finisce per ignorarne la dimensione storica e il carattere peculiare e sistemico. Esso è, infatti, un sistema d’idee, parole, discorsi, atti, norme giuridiche, pratiche sociali e istituzionali, che attribuisce a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate, definitive, naturali o quasi-naturali, al fine di giustificare e/o legittimare stigmatizzazione, discriminazione, subordinazione, segregazione, esclusione, violenza, perfino sterminio. Tale sistema, che di solito agisce in società strutturate da rapporti di classe, è alimentato da pratiche discriminatorie routinarie, tali da produrre una stratificazione di disuguaglianze in termini di accesso a risorse economiche, sociali, giuridiche, simboliche[1].

    Oltre a odio, un altro stereotipo assai diffuso è quello secondo cui, in particolare tra la “gente comune”, sarebbe soprattutto la paura degli altri/e a istigare atti di razzismo verbale o fattuale.

Ma quale paura può suscitare una mamma che piange la perdita della sua bambina di cinque mesi? Eppure il 18 dicembre 2019, nella corsia dell’ospedale di Sondrio, è accaduto che quella madre, una giovane nigeriana che piangeva disperatamente, avendo appena appreso che la sua creatura era morta, fosse insultata da persone comuni, per l’appunto, anche da donne, con frasi raccapriccianti quali: «Mettetela a tacere quella scimmia!». «Ma perché urla? Sarà un rito tribale…», «Non è così grave: gli africani fanno un figlio all’anno»[2].

     Nondimeno «Restiamo umani» è uno degli slogan più diffusi in ambienti antirazzisti. Forse, al contrario, ci si dovrebbe impegnare a trascendere lo stato attuale dell’umanità, cercando di apprendere da quei non-umani che mai tratterebbero in tal modo una madre della loro stessa “specie”[3], la quale si disperasse per aver appena perso il suo cucciolo. Al contrario, gli altri viventi sono perlopiù ridotti a natura bruta, bestializzati, reificati, massimamente sfruttati, perfino sterminati: ed è tutto questo, cioè lo specismo, a costituire il modello, se non la matrice, del razzismo e del sessismo (…).

     Se proprio volessimo attribuire alla sola sfera dei sentimenti e delle emozioni o a una postura morale i moventi del parlare e dell’agire razzista “ordinario”, saremmo costretti a constatare che spesso a prevalere sono piuttosto disprezzo, derisione, dileggio, aggressività:  i quali talvolta sono l’esito − soprattutto tra le classi non abbienti, afflitte dal ben fondato timore del declassamento − di quel processo che Hans Magnus Enzensberger (2007) ha definito con la formula di socializzazione del rancore. Fra l’altro, è quanto meno ingenuo ritenere che possa essere l’odio a ispirare le strategie politiche, istituzionali, propagandistiche contro persone immigrate, profughe, rifugiate o appartenenti a minoranze (…).  

L’impostura  della “guerra tra poveri”

   (…) Ciò detto, conviene precisare che il razzismo non è affatto monopolio delle classi subalterne. Esso è, invece, come ho scritto più volte, l’esito del circolo vizioso fra il razzismo detto istituzionale o di Stato, quello veicolato e praticato dall’estrema destra, infine quello detto popolare o ordinario: un circolo vizioso cui un contributo rilevante è dato dai mass media e dai social networks in specie. Insomma, la nozione di razzismo istituzionale  − elaborata in ambienti afroamericani (Carmichael e Hamilton, 1968/1967) − suggerisce che la discriminazione, l’ineguaglianza strutturale, l’esposizione al razzismo, ma anche allo sfruttamento estremo, di persone immigrate e rifugiate, nonché di alcune minoranze, non è solo il frutto di pregiudizi, xenofobia, ripulsa da parte degli “autoctoni”, ma è in primis l’esito di leggi, norme, procedure e pratiche routinarie, messe in atto dalle istituzioni.

    Quello di odio non è il solo luogo comune, tanto infondato quanto dilagante. Altrettanta fortuna ha avuto e ha tuttora la retorica della guerra tra poveri: pure in tal caso, condivisa anche da locutori di sinistra e antirazzisti. I quali, eludendo (…) il ruolo e le responsabilità del razzismo istituzionale, e facendo dei “poveri” gli unici attori della scena razzista, lasciano trapelare una visione classista, forse inconsapevole (…).

Non basta l’”integrazione” a proteggere dal razzismo

    Un altro cliché, in apparenza di stampo democratico, è quello secondo cui l’integrazione porrebbe al riparo dal razzismo, almeno da quello più violento (…). Per dimostrare, in concreto, l’infondatezza di tale cliché basta citare il caso ben risaputo di Mario Balotelli, calciatore rinomato e di grande levatura (…). Il fatto d’essere un cittadino italiano illustre non lo ha affatto messo al riparo dal razzismo, lo ha anzi esposto costantemente agli insulti più volgari e alle minacce più ignobili (…).

    Se neppure la celebrità e la cittadinanza italiana preservano dal razzismo, ciò è ancor più vero per chi, quantunque inserito nella società, sia considerato altro, a tal punto da divenire bersaglio di violenza razzista estrema, fino alla strage. Si pensi a quella di Firenze del 13 dicembre 2011 che ebbe quali vittime dei senegalesi (…). Eppure  a Firenze la collettività di origine senegalese è tra le più organizzate e radicate, politicamente consapevoli e attive. Tant’è vero che ha espresso leader politici come Pape Diaw: cittadino italiano, per cinque anni è stato consigliere comunale per il centrosinistra e nel 2013 candidato al Senato nella lista di “Sinistra e Libertà”.

   Piuttosto “integrato” era anche Mohamed Habassi, trentatreenne d’origine tunisina, ucciso in un borgo della provincia di Parma la notte fra il 9 e il 10 maggio 2016, a seguito di un’atroce sequela di sevizie, torture, mutilazioni, compiute da due integratissimi e ben noti cittadini parmigiani: un caso estremo di violenza, rimasto confinato nella cronaca locale, al quale dedico la triade dei miei articoli che concorsero a bucare il muro di omertà razzistica.        

    In realtà, le aggressioni razziste, fino all’omicidio e alla strage, contro persone immigrate, rifugiate e/o alterizzate, costellano almeno l’ultimo quarantennio della storia italiana. Ricordo che a Roma, nella notte fra il 21 e il 22 maggio del 1979,  Ahmed Ali Giama, cittadino somalo di trentacinque anni – ex studente in legge presso l’Università di Kiev, poi rifugiato politico fuggito dalla feroce dittatura di Mohammed Siad Barre – venne bruciato vivo da quattro giovani italiani, mentre dormiva sotto il portico di via della Pace, nei pressi di piazza Navona. Nonostante le testimonianze dettagliate di ben sette persone, uscite da un ristorante vicino, i quattro saranno assolti in Cassazione.

Per citare un altro caso agghiacciante, il 9 luglio 1985, a Udine, il sedicenne Giacomo Valent fu ucciso con sessantatre coltellate da due suoi compagni di un liceo privato, assai esclusivo. I suoi assassini, apertamente neonazisti, avevano rispettivamente quattordici e sedici anni. Figlio di un cittadino italiano, funzionario di ambasciata, e di una principessa somala, Giacomo veniva costantemente dileggiato come “sporco negro” (…), anche per le sue idee politiche di sinistra.

   Ben nota è la vicenda dell’omicidio di Jerry Essan Masslo.  Colto e politicamente impegnato (…), era stato costretto, per sopravvivere, a lavorare in condizioni quasischiavili alla raccolta di pomodori nelle campagne di Villa Literno. A questo assassinio, compiuto il 20 settembre 1989 da una banda di giovani rapinatori, per di più razzisti, seguì il primo sciopero di migranti contro il caporalato e – com’è risaputo – una manifestazione nazionale che vide la partecipazione di più di duecentomila persone e inaugurò il movimento antirazzista italiano (…).  Mi sono soffermata su questi casi estremi non solo per ricordare che il neorazzismo italiano ha una lunga storia, ma anche per mostrare che chiunque, “integrato” o non, può essere vittima di razzismo, fino alla morte.

    (…) E’ indubbio che a contribuire decisamente a emarginare le persone immigrate e rifugiate siano anzitutto le sempre più scellerate, punitive e discriminatorie leggi sull’immigrazione: dalla Turco-Napolitano alla Bossi-Fini, dalla Minniti-Orlando fino all’estremo delle due cosiddette leggi-sicurezza (la n° 32 del 2018 e la n° 53 del 2019) , concepite e fermamente volute dall’ex ministro dell’Interno, Salvini. Mentre scrivo, esse sono ancora in vigore: il secondo governo Conte, questa volta di “centro-sinistra”, non sembra affatto intenzionato ad abolirle – se mai a “correggerle”–, sebbene siano decisamente anticostituzionali e contrarie alla Convenzione europea sui diritti umani (…). 

La tanatopolitica dell’Unione europea

   Tutto ciò che ho illustrato è da inserire in un contesto ben più ampio di quello nazionale: l’incalzante tendenza alla diffusione e, nel contempo, banalizzazione del razzismo, perfino dell’antisemitismo, nonché gli orientamenti decisamente proibizionisti rispetto al diritto di emigrare riguardano, infatti, gran parte dei Paesi dell’Unione europea e sono un riflesso delle politiche di quest’ultima. Tanto che, sulla scia di Michel Foucault (2009/1997), potremmo definire tanatopolitica l’operato di buona parte delle sue istituzioni e dei suoi stessi Stati-membri (…).

    Non sembri iperbolico un tale termine. Anche uno studioso competente ed equilibrato qual è Luigi Ferrajoli (2016: 182) sostiene che, con le sue «odierne leggi razziali», l’Ue stia «mettendo in atto una gigantesca omissione di soccorso» e, di conseguenza «un nuovo genocidio» (…). Sì, il Mediterraneo è ormai divenuto un vasto cimitero acquatico e il Canale di Sicilia ha guadagnato il sinistro primato di confine più letale al mondo.

    A un tale primato hanno contribuito non solo la guerra contro le Ong, ma anche la sostituzione della missione Mare Nostrum, destinata al salvataggio di vite umane, con quella denominata Triton, finalizzata al controllo e alla protezione delle frontiere. A ciò si aggiungano i tentativi ripetuti, praticati a suo tempo da Salvini, d’intralciare perfino le operazioni di salvataggio condotte dalla Guardia costiera e dalla Marina militare italiana (…).

    Tuttavia, non si creda che si perisca solo ingoiati dalle acque del Mare nostrum. Anche per merito di UNITED (Rete europea contro il nazionalismo, il razzismo, il fascismo, in supporto dei migranti e dei rifugiati) la quale coinvolge ben 550 organizzazioni della società civile, provenienti da 48 diversi paesi europei , abbiamo la conferma del fatto che la tanatopolitica dell’Ue uccida, direttamente o indirettamente, in forme le più svariate. Attraverso un accurato monitoraggio iniziato nel 1993, tale Rete aggiorna di anno in anno la lista relativa alle morti accertate di migranti  e profughi/e, attribuibili alle «funeste politiche restrittive della Fortezza Europa», alla «militarizzazione delle frontiere, alle leggi sull’asilo, alle politiche di detenzione e deportazione»[4] (…).

     Ormai è il tempo in cui neppure il cadavere di un bambino riverso su una spiaggia riesce a commuovere e a sollecitare la pietas collettiva, come invece accadde a settembre del 2015, allorché fu diffusa l’immagine del piccolo Ālān Kurdî, morto esattamente di tanatopolitica: era figlio di due esuli curdo-siriani, in fuga dall’Isis e dalla guerra civile, dunque più che meritevoli di asilo.       

   Sappiamo bene, inoltre, che oggi neppure la più calda, coerente e diffusa attitudine empatica sarebbe capace di mutare lo stato delle cose presenti.  Tuttavia, se essa tornasse ad essere largamente condivisa, potrebbe almeno costituire una delle spinte per rilanciare un ampio movimento di massa trans-nazionale che avversi la tanatopolitica e la dialettica del razzismo, in termini e modi lucidamente e coerentemente politici.

[1] Per una definizione più ampia, si veda la mia voce «Razzismo» nel dizionario utet, Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, 6 voll., 2007.

[2] A tal proposito si veda: S.N. Neanche il dolore di una madre riesce a fermare il razzismo, «Cronache di ordinario razzismo», 18 Dicembre 2019: http://www.cronachediordinariorazzismo.org/neanche-il-dolore-di-una-madre-riesce-a-fermare-il-razzismo/?spush=YW5uYW1hcmlhc3BlbGl4QGdtYWlsLmNvbQ==

[3] Uso questo termine fra virgolette perché il concetto di specie è alquanto problematico, perciò messo in discussione da studiosi/e, me compresa, che si definiscono antispecisti/e.

[4] Si veda la lista aggiornata fino al 1° aprile 2019: http://www.unitedagainstracism.org/wp-content/uploads/2019/07/ListofDeathsActual.pdf

 

 

fonte: https://comune-info.net/il-carattere-sistemico-del-razzismo-odierno/