La riduzione dell’altro a natura

Il volume dell’antropologo Francesco Bachis, Sull’orlo del pregiudizio. Razzismo e islamofobia in una prospettiva antropologica (Master Aips Edizioni, 2018), sebbene pubblicato tre anni fa, è di una attualità notevole. Esso ha come obiettivo generale l’indagine intorno ad alcune forme di costruzione dell’alterità nella società contemporanea.

Assai colto e ben documentato (come testimonia, tra l’altro, l’ampia bibliografia), esso si colloca lungo una linea di pensiero alquanto affine alla mia: quella che mira a decostruire non solo gli stereotipi, ma anche pseudo-concetti quali “razza”, in primo luogo, nonché “etnia”, “identità”, “discendenza”… (a tal proposito, si veda: R. Gallissot, M. Kilani, A. Rivera,  L’imbroglio etnico, in quattordici parole-chiave, che, pubblicato da Dedalo, ha conosciuto svariate edizioni).

Bachis lo dichiara più volte apertamente, scrivendo, per esempio, di processi di naturalizzazione delle differenze (una formula che mi è molto familiare), i quali talvolta giungono fino all’utilizzo di “razza”. Questa, paradossalmente, non solo è adoperata in ambienti di destra e/o tornata in auge fra gente comune, ma è presente perfino in alcuni ambiti di studi: in quelli detti postcoloniali, in specie.

A tal proposito, Bachis precisa opportunamente che al pari di quel che “avviene con la merce, anche la ‘razza’ è il prodotto e non la genesi dei rapporti sociali di dominio” (p. 19). E aggiunge che, si usi o no apertamente questo lemma, “la naturalizzazione delle differenze perdura anche nella prospettiva dell’attuale fondamentalismo culturale” (p. 21).

Inoltre, l’autore afferma a ragion veduta che “Mentre il ‘noi’ opera nel campo propriamente umano della ‘cultura’, l’’altro’ sarebbe preda di forze irrazionali, spesso sfocianti in una ‘natura’ che lo riduce a destino segnato. In questo quadro gioca un ruolo fondamentale l’immaginario esotico, orientalista e coloniale” (p. 25).

Eppure l’assoluta infondatezza scientifica di razza “sembrava un’acquisizione ormai consolidata”, scrive Bachis (p. 21), citando l’importante genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza. In realtà, converrebbe ricordare che il processo di decostruzione della “razza” parte perlomeno da Franz Boas, fondatore dell’antropologia culturale. Il quale, già dal 1911, con The mind of primitive man, iniziò a demolire progressivamente l’innatismo e il biologismo deterministico: in definitiva, la “razza”, per l’appunto, introducendo come primario il concetto di cultura e, di conseguenza, il relativismo culturale.

Va detto, inoltre, che alcuni capitoli di questo volume quale il primo, dedicato in particolare alla Lega (un tempo detta “Nord”) sono guidati da un’analisi assai accurata dell’ideologia e del lessico che caratterizzano quel discorso razzista, talvolta estremo. Interessante e ben documentato è anche il secondo capitolo, Esotismo e follia: stampa e migranti, corredato com’è dall’analisi critica di un’intera annata de La Repubblica, quella del 1997, onde esaminare, in particolare, l’incidenza e la legittimazione del lemma “clandestino”.

Ricordiamo che quello preso in esame è un anno cruciale, che si caratterizza, fra le altre cose, per aver partorito, nell’ambito di un governo di centro-sinistra (il Prodi-uno), il disegno di legge governativo sull’immigrazione (19 febbraio 1997), che poi sarebbe stato convertito nella legge del 6 marzo 1998, n. 40, detta Turco-Napolitano: quella che, fra le altre ignominie, inaugurò lo scandalo della detenzione amministrativa, istituendo i CPTA, Centri di permanenza temporanea e assistenza, come furono detti con un grottesco eufemismo ossimorico, mentre, in realtà, erano dei lager per migranti irregolari da espellere.

E’ l’anno nel quale ancora perdura il razzismo anti-albanesi, discriminati e rappresentati in blocco al pari di una razza diversa. E’ altresì quello in cui il ministro dell’interno, Giorgio Napolitano, istituisce un blocco navale per impedire gli arrivi dall’Albania.

Fu a causa di tale blocco se, la notte fra il 28 e il 29 marzo del 1997, nel canale d’Otranto, una “carretta del mare”, stracarica di profughi, la Katër i Radës, fu speronata dalla Sibilla, una corvetta della Marina militare italiana. La collisione provocò l’affondamento della motovedetta albanese e la morte per annegamento di un centinaio di passeggeri (solo di cinquantadue di loro furono subito recuperati i cadaveri). I sopravvissuti e le vittime (in maggioranza donne e bambini) furono tutt* definit* quali clandestini. Il governo Prodi non fu particolarmente scosso da una tale tragedia…

Una tale vicenda funesta comprova ciò che scrive l’autore: “Il termine ‘clandestino’ ha una sfera di applicazione molto larga, e viene impiegato anche per denotare individui che si trovano in acque internazionali su imbarcazioni dirette verso i porti italiani” (p. 74).

Questo e altri casi riportati confermano, com’egli scrive, quanta importanza abbiano le pratiche discorsive, soprattutto quelle veicolate dai mass-media.  La parola clandestino, stigmatizzante per eccellenza, sempre più spesso è associata a fatti di cronaca nera, egli aggiunge. E questo, a sua volta, non fa che incrementare politiche sempre più restrittive e razziste.

E ancora a proposito di linguaggio, Bachis sottolinea a giusta ragione come sia parte dell’ideologia razzista l’invenzione (o la reinvenzione) di parole quali buonisti e radical-chic, adoperate per stigmatizzare chi solidarizza con persone immigrate. Com’egli scrive e come io stessa ho scritto più volte, l’antecedente storico è quello di pietismo, usato dopo le leggi razziali del 1938 verso chiunque difendesse gli ebrei o simpatizzasse con loro.

Ho trovato assai interessante anche il terzo capitolo, su islamofobia e antisemitismo, e non solo perché per molti anni mi sono occupata di un tale tema: per es. ne La guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità (Dedalo, 2005), il quale prende le mosse da un’ampia analisi critica della controversia pubblica sul cosiddetto velo islamico. Un tema ancora assai attuale, purtroppo, se è vero che il 6 marzo scorso, in Svizzera, tramite un referendum promosso dalla destra, ha vinto la proibizione nei luoghi pubblici dell’uso del burqa e del niqab.

Nel discorso islamofobico, scrive Bachis, il musulmano viene concepito come doppiamente altro: in quanto immigrato nonché seguace di una religione incompatibile” (p. 99). La parte più stimolante di questo capitolo mi è sembrata quella della comparazione con l’antisemitismo: “L’islamofobia sembra vivere in una relazione di mimesi e conflitto, continuità e scarto con l’antisemitismo” (p. 91).

Nondimeno non sono poche le analogie tra l’una e l’altro. Per es., scrive l’autore, una delle tante risiede nel tema dello sradicamento: come l’ebreo era considerato cosmopolita per eccellenza e anche per questo pericoloso, così il migrante di oggi, se musulmano, oltre tutto, è rappresentato come un soggetto sradicato e instabile, dunque anch’egli pericoloso. Al pari dell’antisemitismo “classico”, che inventò la razza ebraica, dotata di un’essenza comune, così nel caso dell’islamofobia si cancella la pluralità per inventare un homo islamicus: l’uno e l’altro rappresentati come contraltari del “noi”.

Tra l’antisemitismo attuale e l’islamofobia vi sono, tuttavia, non poche differenze. Come precisa Bachis, “se nessuno mette più in discussione concretamente il diritto degli ebrei a vivere in Europa, lo stesso diritto per i musulmani è costantemente oggetto di contesa e negoziazione politica” (p.108).

Il tema dell’islamofobia ritorna nell’ultimo capitolo, in particolare nella forma di un’attenta analisi di un breve video in lingua inglese: il suo oggetto principale è la denuncia del calo di natalità presso le popolazioni europee e americane in favore della crescita contemporanea della fecondità dei musulmani. Anche questo tema presenta alcuni elementi di continuità con l’antisemitismo più classico.

Infine, una mia notazione critica, sia pur secondaria, relativa all’uso di lemmi quali odio e paura, oggi dilaganti, oltre tutto intesi come moventi del razzismo. Non è per caso che ormai anche organismi internazionali, preposti, tra l’altro, a produrre rapporti sul razzismo, usino la formula di hate speech (“discorsi di odio”), riducendo così il razzismo stesso a semplice intolleranza o a questione di scorrettezza verbale.

In realtà – ma non è certo il caso di Bachis – riducendo il razzismo a odio, si finisce per ignorarne la dimensione storica e sociale, ma anche il carattere peculiare e sistemico. Il razzismo, infatti, è un sistema d’idee, parole, discorsi, atti, norme giuridiche, pratiche sociali e istituzionali. Un sistema che attribuisce a gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze essenziali, generalizzate, definitive, naturali o quasi-naturali, al fine di giustificare e/o legittimare stigmatizzazione, discriminazione, subordinazione, inferiorizzazione, segregazione, esclusione, violenza, perfino sterminio (si veda il mio Razzismo. Gli atti, le parole, la propaganda, Dedalo 2020, pp. 7-8)

Oltre allo stereotipo di odio, un altro, oggi assai diffuso, è quello secondo cui, in particolare tra la “gente comune”, sarebbe soprattutto la paura degli altri/e a istigare atti di razzismo verbale o fattuale.  A tal proposito faccio un esempio concreto. Quale paura pensate possa suscitare una mamma immigrata che piange la perdita della sua bambina di cinque mesi? Eppure il 18 dicembre 2019, nella corsia dell’ospedale di Sondrio, accadde che quella madre, una giovane nigeriana che piangeva disperatamente, avendo appena appreso che la sua creatura era morta, fosse insultata da persone comuni, anche da donne, con frasi raccapriccianti quali: «Non è così grave: gli africani fanno un figlio all’anno», «Ma perché urla? Sarà un rito tribale…», «Mettetela a tacere quella scimmia!» (Rivera, op. cit., p. 8).

Anche «Restiamo umani» è uno slogan assai diffuso, soprattutto in ambienti antirazzisti. Forse, al contrario, ci si dovrebbe impegnare a trascendere lo stato attuale dell’umanità, cercando di apprendere da quei non-umani che mai tratterebbero in tal modo una madre della loro stessa “specie”, la quale si disperasse per aver appena perso il suo cucciolo (ibidem).

 

 

fonte: https://comune-info.net/linganno-delle-differenze-innate/