Che razza di nozione infondata

Come dovrebbe essere ben noto, la nozione di “razza” – criticata e poi abbandonata da una buona parte delle stesse scienze sociali e biologiche che avevano contribuito a elaborarla – è una categoria tanto infondata quanto paradossale, essendo basata sul postulato che istituisce un rapporto deterministico fra caratteri somatici, fisici, genetici e caratteri psicologici, intellettivi, culturali, sociali.

Ricordo che nel 1950, il determinismo biologico fu formalmente denunciato dall’Unesco nella Dichiarazione sulla razza, considerata il primo documento ufficiale a denegare la correlazione tra le differenze biologiche e quelle culturali, psicologiche, intellettive, comportamentali. 

Tuttavia, questa Dichiarazione non abbandonava la categoria di razza, ma solo il determinismo biologico. Per ciò non era, neppure per l’epoca, un documento granché avanzato, sebbene alla sua stesura avessero contribuito studiosi del calibro di Claude Lévi-Strauss e Ashley Montagu.

Ricordo che il secondo – biologo, psicologo, infine antropologo (fu uno dei primi allievi di Malinowski, poi di Boas) – già nel 1942 aveva demolito “il mito della razza” in un saggio (Man’s Most Dangerous Myth: The Fallacy of Race), che sarà tradotto in italiano tardivamente, col titolo La razza. Analisi di un mito.

A proposito del contributo dell’antropologia culturale nella decostruzione della “razza” (spesso sottovalutato dagli stessi antropologi), basta considerare il ruolo di Franz Boas, pioniere dell’antropologia moderna. Boas, che patì anche personalmente l’antisemitismo, divenne sempre più, nel corso del tempo, uno strenuo avversario del razzismo detto impropriamente scientifico. E ciò in una fase storica in cui ancora prevalevano pseudo-scienze quali la fisiognomica, la frenologia, l’antropologia criminale di Cesare Lombroso.

Fu col demolire progressivamente l’innatismo e il biologismo deterministico, che Boas riuscì ad introdurre la cultura come concetto primario e poi anche il relativismo culturale.

Non per caso tra i volumi che i nazisti dettero alle fiamme a Berlino, la notte del 10 maggio 1933, cinque mesi dopo l’ascesa di Hitler al potere, v’era uno dei saggi più popolari di Boas: cioè The Mind of Primitive Man, del 1911 (tre anni dopo pubblicato in tedesco col titolo più esplicito di Kultur und Rasse).

Ben più tardi, nel 1946, Fernando Ortiz, considerato il più importante etnologo e antropologo cubano, avrebbe pubblicato El engaño de las razas. Influenzato soprattutto dall’antropologia culturale statunitense, in questo saggio Ortiz confutava radicalmente, fra le altre cose, il razzialismo scientista. Tra l’altro, ricordo che fu lui a coniare la parola e il concetto di transculturazione. 

Non brilla per audacia neppure la successiva Dichiarazione sulla razza, votata all’unanimità e per acclamazione nel 1978 dalla Conferenza Generale dell’Unesco. Basta dire che, se per l’antropologo cubano “razza” era «una mala palabra que non debiera decirse», qui gli aggettivi “razziale”/”razziali” vi ricorrono ben trentadue volte e vi si parla ripetutamente perfino di gruppi razziali come di un’evidenza.

Su questa stessa linea si porranno quasi tutte le convenzioni internazionali sui diritti umani e anche i testi-base dell’Unione europea, compresa la Carta dei diritti fondamentali. Sicché non c’è da stupirsi troppo se la “razza” permanga perfino nelle Costituzioni, compresa quella italiana, di cui si sono dotate le democrazie nate dalla resistenza al nazi-fascismo.

Eppure “razza” non è altro che una “metafora naturalistica”, per dirla con la formula di Colette Guillaumin (1972), sociologa femminista, autrice di una delle opere migliori che siano state scritte sul mito della razza e sul razzismo, mai tradotta in Italia (L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel). Tale metafora è adoperata per naturalizzare lo stesso processo di svalorizzazione, stigmatizzazione, gerarchizzazione, discriminazione ai danni di taluni gruppi, minoranze, popolazioni.

In realtà, come insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo, qualunque gruppo umano può essere razzizzato, indipendentemente dalla visibilità fenotipica, dalle origini, perfino dalle peculiarità culturali e sociali. Lo stigma applicato a certe categorie di persone può prescindere da qualsiasi differenza, essendo l’esito di un processo di costruzione sociale, simbolica, politica. Si pensi alla razzizzazione di cui furono oggetto in Italia i profughi albanesi nel corso degli anni ’90.

Nondimeno v’è ancora chi crede fermamente che il razzismo prenda di mira esclusivamente persone “negre”. Un esempio recente è quello riferito alcuni giorni fa da quotidiani, anche italiani. Riguarda un’afro-americana – attrice, conduttrice televisiva, cantante -, conosciuta con lo pseudonimo di Whoopi Goldberg. A fine gennaio di quest’anno, nel corso di un talk-show assai popolare, ella ha osato affermare che l’Olocausto “non aveva nulla a che vedere con la razza”, poiché è stato “solo” un episodio di “disumanità di uomini contro altri uomini”. La prova risiederebbe nel fatto che i protagonisti erano “due gruppi di persone bianche”. In sostanza “gente bianca contro gente bianca, e quindi voi che combattevate tra voi”.

In realtà, la stessa percezione dell’evidenza somatica dipende dalla storia, dalla società, dalla cultura. Tant’è vero che vi sono state e vi sono società per le quali quei caratteri fenotipici o morfologici (soprattutto il colore della pelle) che solitamente sono stati assunti come criterio di distinzione fra le “razze” non avevano (e non hanno) alcun valore tassonomico né valevano a istituire differenze fra individui e gruppi.

Nel razzismo odierno, che si è convenuto di definire “neorazzismo”, il determinismo biologico-genetico è spesso sfumato, talvolta dissimulato. Al fine di giustificare ostilità o rifiuto degli altri, di attuare e legittimare pratiche di discriminazione, segregazione ed esclusione, perlopiù si essenzializzano differenze sociali, culturali, religiose, fino a concepirle come a-storiche, assolute, immutabili.

Nondimeno, conviene ricordare che già l’antisemitismo moderno era culturalista e differenzialista: ha ragione Etienne Balibar a sostenere che «il neo-razzismo può essere considerato, dal punto di vista formale, come antisemitismo generalizzato».

Di conseguenza, conviene non assolutizzare neppure l’assunto secondo il quale il razzismo dei nostri giorni sarebbe differenzialista, culturalista, senza “razze”. In realtà, gli slittamenti, il mélange, i passaggi dal razzismo biologista a quello detto culturale, ma anche viceversa, ci sono sempre stati, ci sono tuttora, sono sempre possibili: al momento opportuno può riemergere l’immaginario sedimentato della “razza”.

Non fosse altro per questo, alquanto discutibile appare l’impegno profuso da studiosi, soprattutto francesi e italiani, che si rifanno alla “Critica postcoloniale”: impegno diretto a reintrodurre il termine e la nozione di razza nel lessico delle scienze sociali, in tal modo vanificando un secolo di paziente lavoro critico volto a decostruirli.

Incuranti del rischio di ri-legittimare la “razza” al livello del senso comune, studiose e studiosi dette/i “postcoloniali” la hanno collocata al centro del loro apparato concettuale, sia pur intendendola come costruzione sociale e dispositivo d’inferiorizzazione, subordinazione, esclusione degli altri. Il ragionamento di alcuni di loro è riassumibile nei termini di un sillogismo di questo genere: la retorica dei diritti umani ha fatto della “razza” un interdetto; ma, poiché la discriminazione e il razzismo esistono, per renderli palesi, analizzarli, contrastarli, nominarne le vittime, conviene riesumare il lemma di razza.

In verità, qualunque precauzione si prenda, il passato delle parole si sedimenta e persiste: per quanto si faccia lo sforzo di sociologizzarla, “razza” conserverà sempre il significato biologista-determinista che le è stato attribuito nel XIX secolo.

«Non si cambia la realtà cambiando i nomi; non si elimina il razzismo abolendo la parola razza», si sostiene da molte parti. Ma noi, che proponiamo di abolirla a iniziare dalla Costituzione italiana, non siamo così ingenui da pensare che così sarà bandito o solo incrinato il sistema-razzismo. Intendiamo, invece, affermare che la presenza di “razza” nella Costituzione appare oggi assurda e immotivata esattamente com’era la nozione di “sangue reale” nello Statuto albertino.    

 

 

fonte: https://comune-info.net/che-razza-di-nozione-infondata/