Quanto ci manca Clara Gallini

Ben prima dell’antropologia riflessiva proposta da Clifford Geertz e da talune correnti post-moderniste, per così dire, la storia della disciplina è stata attraversata da un sia pur minoritario filone che include ed esplicita la soggettività dell’antropologo/a e i motivi autobiografici nel testo e nella struttura del discorso (nella narrazione, se si vuol dirlo con un termine abusato e alla moda).

Per tutte è opportuno citare l’opera, illustre quanto controversa, di Michel Leiris, in particolare L’Afrique fantôme, apparsa nel lontano 1934. In quest’opera l’autore realizza una sorta di pratica autobiografica dell’etnografia. E afferma apertamente che è proprio tramite la soggettività che si può raggiungere l’oggettività. In tal modo Leiris mette in crisi il presupposto epistemologico fondamentale dell’approccio scientifico di un tempo (o forse si dovrebbe dire scientista, erede del positivismo): quello che obbligava a nascondere il soggetto dell’enunciazione dietro l’oggetto dell’enunciato.  E che aspirava alla neutralità per mezzo di un testo che mai sfumasse nel personale e nel soggettivo.

Di quest’obbligo Clara Gallini spesso si è fatta beffe, in particolare in alcune sue opere, raggiungendo, nondimeno, risultati eccellenti. Non mi riferisco solo alla sua coraggiosa opera ultima, Incidenti di percorso. Antropologia di una malattia (Nottetempo, Roma 2016). Anche altri suoi scritti sono disseminati di spunti autobiografici, che niente sottraggono al loro pregio antropologico e che, anzi, rendono la sua scrittura e il suo stile originali e accattivanti.

Anche perché, nel momento in cui si racconta con l’abituale ironia e auto-ironia, niente concede al narcisismo; anzi, in qualche misura si fa antropologa di sé stessa, per dirlo con un’espressione paradossale. 

Lo fece perfino nel testo di una relazione su Gramsci, preparata per il Festival dell’Etnografia di Nuoro, che si svolse dal 23 al 26 giugno 2007. La cito, questa relazione, anche perché mi è particolarmente cara, essendo stata preceduta da una fitta discussione online tra alcuni colleghi e colleghe, me compresa. Perfino in questo testo Clara si racconta qua e là, e in modo niente affatto compiaciuto. Come in questo passo:

Le ricerche in Sardegna mi avevano già messa di fronte all’evidenza di istituti culturali – ad esempio, le feste, i novenari – che si rappresentavano come “popolari “, ma erano di fatto interclassisti. Il che mi poneva non pochi quesiti proprio in quegli anni in cui troppo spesso il “popolare” veniva essenzializzato, ideologizzato e non studiato come produzione culturale assai complicata.

A proposito di spunti autobiografici, si potrebbero menzionare numerosi altri esempi. Io mi soffermerò solo su due: il già citato Incidenti di percorso e il saggio breve Divagazioni gattesche, contenuto in un libro collettaneo del 1991, Tra uomo e animale. Curato da Ernesta Cerulli e pubblicato dalla casa editrice Dedalo (Bari), raccoglieva i contributi di antropologi/ghe illustri: da Bernardi alla stessa Cerulli, da Faldini a Grottanelli, da Lanternari a Tullio Altan.

Perché io abbia prescelto quale esempio Incidenti di percorso è del tutto evidente. Con una scrittura lucida e coraggiosa, Clara qui dà prova della sua singolare capacità di farsi davvero osservatrice partecipante di sé stessa e della sua malattia, nonché del contesto umano, sociale, sanitario, simbolico nel quale era immersa dacché si era ammalata gravemente.

Mi soffermerò pure su Divagazioni gattesche non solo in quanto densissimo di spunti autobiografici, ma anche perché il tema mi sta particolarmente a cuore: tra le svariate cose, con Clara condividevo da lungo tempo una spiccata gattofilia. Uno dei miei libri più recenti s’intitola La città dei gatti. Ed è, come recita il sottotitolo, un’antropologia animalista (l’ossimoro è intenzionale) di Essaouira, città del SudOvest del Marocco.

Ma v’è un’altra ragione che mi spinge a citare Divagazioni gattesche: il libro collettaneo che contiene il contributo di Clara risale a ben ventisette anni fa, quando l’animalismo e l’antispecismo erano ancora pressoché sconosciuti in Italia. Eppure lei spicca, tra gli altri/e autori/trici, per l’approccio animalista e, si potrebbe azzardare, perfino antispecista, se è vero che accenna anche alla storicità dello stesso concetto di specie (ivi: 102). Al tempo stesso, vanta, con l’ironia consueta, la sua «ormai pluriennale gattesca osservazione partecipante sulle trame storiche di cui si intesse il grande sapere degli antropologi» (ivi: 100) e lamenta che non vi sia un’antropologia che rimarchi come il gatto, al pari del vitello dei Nuer, possa servire (come fu in un tempo lontano) a pensare il mondo (ivi: 101).

 Ritornando a Incidenti di percorso, conviene dire che, in realtà, quest’opera è non solo «la storia di un viaggio in un corpo malato» (ivi: 11), per citare le sue parole, ma anche una vera e propria autobiografia. Clara, infatti, si racconta a partire dall’infanzia, con una narrazione venata d’ironia un po’ malinconica – come ho detto, uno dei tratti del suo carattere – e per niente indulgente verso sé stessa.

 Per esempio, non nasconde affatto i suoi punti deboli né l’inflessibilità educativa di una famiglia borghese e classista, che fu anche acquiescente verso il regime mussoliniano. Ammette anche d’aver conosciuto Marx e Gramsci «con un certo ritardo» e solo grazie al suo trasferimento a Cagliari, invitata, nel 1959, da Ernesto de Martino. A quel tempo – scrive – di de Martino aveva letto solo Il Mondo Magico. «Non ci avevo capito niente», ammette onestamente, se non che «lì dentro c’era qualcosa di forte, dirompente, un pensiero vivo e attivo, che coniugava la nostra vita con quella degli altri» (ivi: 245). 

Com’è ben noto, la sua formazione antropologica avvenne lì, a contatto con de Martino e in quell’università che «fu per alcuni anni un’isola felice di saperi»: vi si raccoglieva un’intellighenzia, costituita soprattutto da studiosi provenienti da varie parti del continente, che veniva «considerata comunista» (ivi: 251).

«Quando si è vecchi e dolenti – scrive ancora nell’opera estrema – si rimane soli e le relazioni si riducono a quelle che abbiamo col nostro corpo e coi vari medici» (ivi: 58). In realtà, mai Clara è stata sola, neanche nel periodo più arduo della sua lunga malattia. Non lo era grazie alla presenza abituale della gatta Mirina, sua interlocutrice ventennale, ma anche di colei che la ha assistita negli ultimi tempi con massima cura e devozione: una donna di origine peruviana, «molto acuta e molto attenta alle cose» (ivi: 277), che nella sua opera estrema cita più volte, sotto lo pseudonimo di Abilia, dedicandole anche il capitolo conclusivo.

La loro convivenza era divenuta a tal punto simbiotica che Abilia – racconta Clara – proiettava nei suoi propri incubi notturni uno degli assilli che erano di Clara: il timore della scomparsa degli oggetti, soprattutto degli “inutili”, di cui la sua casa era strapiena. «Indispensabili per la mia esistenza, ti aiutano a guardare in faccia la paura e il dolore. Insomma, ti aiutano a vivere» (ivi: 262).

Non era sola, anche perché fino alla fine ha ricevuto amicizia e attenzione da Adelina Talamonti nonché da Vittoria De Palma, personificazione, quest’ultima, di parte cospicua della sua biografia intellettuale. Nell’opera estrema, Clara rende omaggio a entrambe, così definendo Vittoria:

custode della memoria del più grande antropologo italiano (…), che ancora considero il mio Maestro, che continua a esercitare un possente ruolo anche nella costruzione del mio carattere di studiosa resistente. È a lui che si ispira e rinnova il mio metodo» (ivi: 57-58).

E più avanti:

anch’io, come molti altri, considero de Martino come uno dei più grandi intellettuali del Novecento. Dopo di lui sarebbe stato difficile accettare l’esistenza di un’etnografia oggettivante e non in grado di dichiarare assieme i propri concetti, sottoponendoli a una critica interna, che fosse storica e valoriale (ivi: 250).

Ma ritorniamo al saggio breve del 1991. Per rendersi conto dell’originalità dell’approccio e della scelta testuale di Clara, basterebbe mettere a confronto gli esordi dei diversi contributi che compongono il volume. Ne cito alcuni: 

«Nelle culture akan, da me frequentate in loco… » (Ernesta Cerulli); «Feroce e solitario, il casuario, che vive nelle foreste della Nuova Guinea… » (Gilda della Ragione); «Dall’alba del Paleolitico inferiore ad oggi, i rapporti uomo-animali… » (Vinigi Grottanelli); «L’effigie dell’elefante, assurta al ruolo d’immagine-simbolo della Costa D’Avorio» (Giovanna Parodi da Passano).

Clara Gallini, invece, osa esordire così:

«Immaginatevi Vittorio Maconi con un gatto in testa» (ivi: 99). E dopo aver descritto, con una buona dose d’ironia, l’interazione fra i tre attori, cioè il cucciolo di gatto e i due umani, incontratisi a casa sua (di Clara) «per condividere l’ambigua sorte di commissari in un concorso a cattedre» (ibidem), osserva con rammarico quanto scarsa sia l’«antropologia gattesca». 

Da questo registro passa poi, con disinvoltura ed eleganza, a una dotta critica del Marshall Sahlins di Culture and Practical Reasons (1976) per «l’imperdonabile», «sconvolgente» omissione del gatto dal novero degli animali presi in considerazione al fine d’illustrare la sua teoria. Secondo la quale, com’è ben noto, la gerarchizzazione dei non umani da parte degli umani sarebbe basata sui criteri oppositivi della commestibilità e della prossimità.

Parlare di gatti – sostiene Clara – avrebbe introdotto qualche elemento di disturbo in questa teoria apparentemente ineccepibile. Perché il gatto è «un animale di margine», collocato com’è «tra un dentro e un fuori domestico» (ivi: 103), tra non commestibilità come regola e commestibilità come eccezione, nondimeno praticata (e a tal proposito fa l’esempio dei vicentini “mangiagatti”). E, a proposito di commestibilità, osserva con amaro realismo:

«Né più forse incontreremo animali che significhino il mondo, se quelli con cui ci cibiamo li mattiamo di nascosto e facciamo di tutto per separare la loro immagine ‘viva’ (…) dalla neutra astrazione di un’esangue fettina che il macellaio ci tagli sotto gli occhi» (ivi: 101).

Dopo una dotta e sottile analisi dei luoghi comuni che oppongono il gatto al cane, tra i quali quello, assai diffuso, che vuole «che il cane sia amico dell’uomo, il gatto invece della casa» (ivi: 106), Clara riprende il registro autobiografico scrivendo della sua relazione con Rosso, Grigia e Rosina, i felini con i quali conviveva in quel periodo. Che lei definisce persone: «Per me sono persone: persone gatti». Perciò, aggiunge, «mi appare sempre meno chiaro cosa distingua la mia umanità dall’animalità dei miei tre gatti» (ivi: 112).

Il saggio continua così, alternando pagine acute ed erudite sul Malleus Maleficarum, sullo spiritismo detto scientifico, sul saggio Il grande massacro dei gatti dello storico Robert Darnton (1984) con il racconto dettagliato dell’avvelenamento intenzionale di Minero, «inerme gatto parlante»: un gatticidio, come lo definisce, perpetrato per vendetta da qualcuna «del piccolo vicinato tranquillo e decoroso» (ivi: 120) di via dell’Esquilino.

«Di tutto questo soffrii molto, conclude Clara, anche perché non avevo potuto misurarmi faccia a faccia con la persona che, intendendo colpire il cuore di un’altra, scelse come bersaglio un inerme gatto parlante (ivi: 123)».

Nonostante la brevità e la costante dialettica tra registro etnografico e stile autobiografico, le trenta pagine di Divagazioni gattesche sono perfettamente coerenti, al pari di Incidenti di percorso. E rappresentano un esempio luminoso di come conoscenza e sensibilità, rigore scientifico ed empatia possano aver ragione dell’apparente dicotomia tra soggettività e oggettività.

Oggi che va riemergendo la tendenza a ritenere che, per essere scientifica, un’opera nel campo delle scienze sociali debba essere fredda, anodina, oggettivista, nonché densa di locuzioni anglofone, la lezione di Clara appare in tutta la sua grandezza.

 

 

fonte: https://comune-info.net/quanto-ci-manca-clara-gallini/