IMMIGRAZIONE
ANNA MARIA RIVERA
S E ve ne resta la pazienza, leggete i programmi elettorali delle liste di sinistra: è certo che in qualcuno, nello striminzito paragrafo sulla “questione immigrazione”, troverete la constatazione dell’esistenza delle “etnie”, l’auspicio di una “società multietnica” e, perfino, un punto di programma finalmente chiaro: “la scelta multietnica”.
Se siete sensibili al lavoro del concetto e al rigore del linguaggio, sarete infastiditi da tanta superficialità. In ogni caso vi chiederete che diavolo è una società multietnica e se è vero che gli immigrati che vedete in giro non siano altro che “etnie”, bisognosi non di soggiorno, lavoro, diritti, uguaglianza, ma di essere salvaguardate nella loro “identità culturale”. Se poi siete addentro a questo genere di cose, vi domanderete se l’estensore collettivo di quel tale programma davvero abbia optato per la società multietnica, cioè per il modello d’integrazione all’anglosassone (riconoscimento dei diritti collettivi delle minoranze, con tutti i rischi di ghettizzazione che comporta) contro il modello alla francese (riconoscimento dei diritti individuali universali, col rischio dell’assimilazione e senza effettiva uguaglianza di diritti). Non è così: in realtà la multietnicità “à la gauche italienne” è come il “siamo tutti fratelli” del cattolicesimo peloso. E’ la foglia di fico per coprire il vuoto di idee o l’interdetto. Non potendo dire: consiglieri aggiunti subito (essendoci fatti scippare il diritto di voto), politiche locali per l’integrazione, i diritti sociali e così via, chiediamo una bella società multietnica che non costa niente. Quando la sinistra ciancia di multietnicità, è perché non ha niente da dire; quando ne parla la destra, sa bene ciò che vuol dire, e cioè: frontiere serrate, niente uguaglianza di opportunità e di diritti, niente mescolanze contro natura con la civiltà giudaico-cristiana, degli stranieri ci teniamo i pochi buoni e gli altri li ributtiamo a mare, ma in cambio gli diamo la possibilità di coltivare le differenze a casa loro. Qualcosa come un apartheid planetario, ogni “etnia” libera di coccolare la propria irriducibile specificità culturale. La destra, specie quella “nuova” alla francese, sa essere rigorosamente differenzialista. E’ raro che le sfugga un “razza” o un “multirazziale”, cosa che accade spesso alla sinistra, convinta che il “politicamente corretto” sia cosa da americani. Che “etnia” sia eufemismo per alludere alla razza, che l’etnicizzazione degli “altri” nasconda e rafforzi le gerarchie di classe, di status, di potere, la destra intellettuale lo sa bene; mentre la sinistra che parla di multietnicità neppure sa decifrare il proprio retropensiero, ugualmente ma confusamente differenzialista. Chi, in buona fede, chiama “etnici” i modi di vita e le culture altrui è perché in fondo li associa al primordiale, ancestrale, arcaico, spontaneo, autentico… Salvo nei casi dei
leghisti e dei lepenisti che difendono l'”etnia padana” e l'”etnia francese”, nessuno che appartenga alla cultura maggioritaria si pensa come “etnico”. Etnici sono gli altri: culture e gruppi particolari, marginali, periferici, in via d’estinzione o solo non conformi alla norma nazionale e/o europea. Dunque, l’etnicità è l’umanità degli altri.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1997020559