Parole armate a sinistra

BALCANI

ANNAMARIA RIVERA*

F ra le tante catastrofi che la guerra contro la Jugoslavia ha provocato, ve ne è una che ci colpisce più da vicino: è la catastrofe del senso, il tracollo semantico, la caduta in pezzi di quell’insieme di segni, di simboli, di referenti, di significati – storicamente costruiti – cui eravamo soliti dare il nome di sinistra. Certo, gli ultimi decenni avevano già provveduto a insidiare gravemente l’illusione che si potesse ancora pensare a un “campo” della sinistra definito dalla sua genealogia, a un’ampia area politica e culturale che, per quanto variegata e composita, sia riconoscibile per un “discorso” determinato, per alcuni principi e valori comuni fondamentali. L’evento della guerra ha disvelato gli esiti di un processo che si era consumato già da tempo e che i più fingevano di non vedere: quelle che con molta generosità Ignacio Ramonet chiama socialdemocrazie sono diventate – egli dice – la destra moderna, avendone ereditato il conformismo e il conservatorismo, mentre i partiti conservatori si apprestano a uscire dalla storia come fu costretta a fare l’aristocrazia dopo il 1789. Ramonet coglie un aspetto incontrovertibile della questione, ma v’è dell’altro e di peggio. Non si tratta solo di un “semplice” passaggio di campo, di una razionale trasformazione di forze politiche, un tempo di sinistra, che ereditano ruolo e attitudini della destra. L’intervento della Nato ha scatenato un collasso logico, un crack semantico, di cui le socialdemocrazie europee sono co-artefici e vittime al tempo stesso. L’evento bellico ne è il rivelatore, ma le cause sono iscritte nella lunga durata, in un processo di “americanizzazione” delle società europee che vede fra i suoi più potenti fattori l’efficacia dei media nell’organizzare il discorso pubblico e nel farlo divenire senso comune.

E’ esemplare il modo in cui la guerra viene trattata in Francia nel discorso pubblico costruito dalla propaganda (cui partecipano, beninteso, media, intellettuali, leader di governo, attivisti umanitari…). Quando un’aggressione armata è definita “intervento umanitario”, quando la guerra viene giustificata in nome dell’etica e l’intervento bellico diventa la “difesa dei diritti umani” davvero siamo alla catastrofe semantica. La maniera in cui vengono spiegati l’orientamento contrario alla guerra e quello favorevole è un altro bell’esempio di perversione del senso: con quella salottiera leggerezza intellettuale con cui talvolta in Francia si riducono a formule alla moda gli eventi e i fenomeni più gravi, la tragedia della responsabilità europea nella guerra viene semplificata come una querelle fra “sovranisti” e “umanitaristi”. Le non numerose voci che si levano contro i bombardamenti, che vengano da destra o da sinistra, avrebbero in comune l’attardamento su una vetusta concezione politica legata al principio della sovranità degli Stati (della sovranità della Francia, della Jugoslavia e per estensione dell’Unione europea…). Coloro che plaudono all’intervento della Nato sarebbero invece i tedofori della Politica del futuro, quella che si basa sull’intransigente difesa dei diritti umani, anche aldilà o contro la volontà degli Stati. Una riduzione così grottesca delle ragioni degli uni e degli altri non è opera delle sole forze moderate: la “sinistra” vi ha contribuito in buona misura, fornendo la retorica che, grazie a una lunga sedimentazione, oggi consente la sacralizzazione della guerra. E la “sinistra” vi contribuisce ogni giorno con atti concreti: sabato scorso a Parigi i Verdi sono scesi in piazza dietro le bandiere del “Comitato Kosovo” per chiedere l’intervento terrestre , un obiettivo adeguato alla radicalità della loro lotta per i diritti umani! E che dire di quell’altro pericoloso ideologema reso possibile dalla mitridatizzazione al revisionismo che si è compiuta in questi anni, anche grazie al contributo di una certa “sinistra”? In Francia più che altrove è diventata senso comune l’idea che Milosevic è il nuovo Hitler e la pulizia etnica contro i Kosovari è la nuova Shoah. Al punto che qualche intellettuale pacifista che vuole spiegarti come mai tanta gente sia favorevole alla guerra ti dice: cerca di capire, per molta parte dei francesi è stato uno shock scoprire di recente che la Francia è stata nazista; adesso non vorrebbero farsi complici di un altro genocidio… In questo collasso logico

non v’è posto per domande elementarmente logiche come: è storicamente credibile che gli Stati Uniti e la Nato scatenino una guerra per difendere i diritti umani di un piccolo popolo? La guerra non viola forse i diritti umani delle popolazioni dei balcani? Non ha forse peggiorato la condizione del popolo kosovaro?

Il crack semantico si palesa anche nell’orgia delle locuzioni che declinano il riferimento all’ ethnos. Da noi, pochissimi a destra e non molti a sinistra mettono in dubbio che la rivendicazione dell’autonomia del Kosovo, il revanscismo nazionalista di Milosevic, la negazione dei diritti dei Kosovari e la loro persecuzione, la resistenza alla guerra dei serbi, gli odi e i conflitti balcanici scaturiscano da quella misteriosa sostanza primordiale che viene detta identità etnica. Quando il padroncino brianzolo rivendica l’autonomia della “Padania”, nessuno, tranne Bossi, pensa che egli sia spinto dal fatto d’esser etnicamente (cioè quasi razzialmente) differente. Quando a mobilitarsi per rivendicare risorse e autonomia, ed eventualmente a confliggere sanguinosamente, favoriti da spinte e interessi occidentali, sono gli “altri”, scatta immediatamente il paradigma etnico. E agli “etnici”, cioè ai quasi-razzialmente differenti se non inferiori, bisogna portare la civiltà, pardon, i diritti umani, a costo di guerre e massacri: è il fardello dell’uomo bianco, baby! Quell’arcaica sostanza intrinseca posseduta da tutti gli arretrati del pianeta, impermeabile al mutamento storico e alle differenze di condizione sociale, di potere, di sesso, di età, sarebbe capace di spiegare conflitti e purificazioni e di legittimare l’ingerenza umanitaria armata dei non-etnici. L’etnicità è la profezia che si autorealizza, un’invenzione che infine è diventata parte della realtà politica.

Che l’etnicità sia una costruzione altamente manipolabile lo dimostra la stessa attuale conversione di Bossi alle ragioni della destra radicale. La Nouvelle Droite, intellettuale “gramsciana” e antimodialista, che è parte di quell’internazionale xenofoba che arriva fino a Zhirinovski, ha conquistato il meno intellettuale dei leader politici, il quale oggi scimmiotta penosamente Alain de Benoist, come un bambino che ha imparato male la lezione. La conversione bossiana dal federalismo padano al differenzialismo spiritualista e al “pacifismo” filoserbo e filonazionalista non dovrebbe trarre in inganno alcuno, se non fosse che il tracollo semantico talvolta rischia di sfiorare anche quella sinistra senza virgolette che ha saputo discernere con chiarezza il senso e dunque rifiutare con decisione la guerra. Nondimeno, è a partire dalla variegata galassia che si è trovata intorno alle ragioni della pace che occorrerà ridisegnare i contorni di una possibile sinistra. Anche per ricostruire un nuovo senso di sinistra occorre abbandonare il linguaggio che parla di radici, di origini, di discendenza.

*Coautrice de “L’imbroglio etnico”, Dedalo

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1999006032