Una cornice chiamata Islam

Una cornice chiamata Islam

ANNAMARIA RIVERA

E’ destino o vocazione del nostro paese ripercorrere tardivamente e inconsapevolmente strade già battute da altri, ed eventualmente abbandonate. Le recenti sortite di cardinali, cui si inchinano “noti politologi” di fede laica, sulla radicale non-integrabilità degli immigrati musulmani, e l’inquietante temperie sociale in cui si iscrivono, sembrano una riedizione farsesca delle polemiche che attraversarono la Francia 10-15 anni fa, sull’onda dell’allarme sociale sulla presunta islamizzazione del paese. Un’ossessione dell’Islam e dell’immigrato, identificato sempre come arabo e musulmano, tale da far scrivere allora a Pierre-André Taguieff che l’arabofobia (e l’islamofobia) contemporanea perpetua e rinnova i meccanismi dell’antisemitismo. Simili, infatti, sono le strutture e i temi ricorrenti: la religione dell’Altro intesa come un’essenza intrinseca, immutabile; la “razzizzazione” della presunta appartenenza religiosa; la tesi della sacra identità nazionale minacciata da un’alterità inassimilabile eppure capace di contaminare o insidiare il corpo della nazione…
La differenza con la Francia è che da noi le risposte a un tale delirio sono deboli e rare: non v’è alcuna corale levata di scudi da parte dell’intellettualità laica e democratica; né la temibile convergenza fra integralismo cattolico, xenofobia e destra politica sollecita una produzione molteplice e d’alto livello di analisi e riflessioni. Va dunque salutato come una felice eccezione il volume su Immigrati e religioni (Liguori, pp. 360, L. . 37.000) curato da Maria Immacolata Macioti, sociologa che vanta una consolidata competenza sul versante dell’analisi dell’immigrazione come su quello della sociologia comparata delle religioni. I venti saggi che lo compongono, pur riunendo specialismi molteplici – dalla sociologia, all’antropologia, alla psichiatria -, e pur con approcci diversificati – dalla riflessione teorica al resoconto di ricerche sul campo -, sono assimilati da un comune presupposto, sintetizzato nell’introduzione di Macioti: è fuorviante parlare “di incontro tra culture globalmente e monoliticamente intese”, occorre piuttosto parlare di incontri, e conflitti, “fra persone che hanno interiorizzato elementi culturali diversi”, e che sono sempre in grado di rielaborarli, relativizzando le proprie certezze. Dunque, non culture e religioni reificate e intese come corpi compatti e immutabili, come forze cogenti sottratte alle determinazioni storiche, sociali e politiche, ma considerate come referenti identitari instabili e provvisori, soggetti a mutamento, contaminazione e anche abbandono. Che vanno colti in relazione ai vissuti, alle esperienze e pratiche sociali, all’intero mondo sociale e culturale dei migranti, che non è fatto solo della religione “d’origine”.
Opportunamente Giovanna Campani (“La religione come fattore identitario”) sottolinea quanto sia fallace intendere la religione d’origine come principio di maggiore o minore integrazione, e di maggiore o minore “accettabilità sociale” delle diverse popolazioni immigrate. E ricorda che, se oggi a posteriori alcuni studiosi attribuiscono l'”integrazione riuscita” degli italiani in Francia alla comune fede cattolica, alla fine dell’800, periodo caratterizzato da un crescente razzismo anti-italiano culminato nel pogrom di Aigues-Mortes, fu proprio il loro cattolicesimo a essere stigmatizzato come elemento di radicale differenza culturale. Gli italiani erano reputati non solo “gente dal coltello facile”, ma anche gente dalle pratiche religiose arcaiche e superstiziose. Una visione non lontana da quella propensione attuale che vede in ogni straniero un homo religiosus, che stigmatizza l’Altro come homo islamicus, che usa l’equazione musulmano-integralista come un automatismo.
I risultati di un’indagine condotta in Veneto da Enzo Pace e Chantal Saint-Blanchat mostrano quale pluralità di modi e stili di vita religiosa si dispieghi “entro la comune e generica cornice chiamata Islam”, anche in gruppi della medesima provenienza; e quanto tale differenziazione sia attribuibile a parametri quali età, sesso, grado di istruzione, livello di inserimento sociale. Ne discende una seconda conclusione, che smentisce il cliché dell’Islam “comunitario e ritualistico”: un tratto della religiosità musulmana della diaspora europea, soprattutto di giovani e donne, sembra essere la tendenza verso un Islam personale, interiorizzato e spiritualizzato, che privilegia la ricerca di senso e armonia con se stessi.
Il saggio di Hassan Reda Raan (“Introduzione all’Islam”) contribuisce a smontare altri luoghi comuni, a cominciare dall’equazione arabo-musulmano: su scala mondiale, solo un quinto dei musulmani appartiene al mondo arabo e un quinto degli arabi non è musulmano. Una realtà che si rispecchia nell’Islam “immigrato” in Italia, al quale contribuiscono non solo i provenienti da paesi arabi, ma anche albanesi, bengalesi e pakistani. Raramente si ricorda, poi, che la maggioranza degli immigrati in Italia è di confessione cristiana (52,5%) e che preponderante è la componente cattolica (30%). Dati confermati dai saggi di Bruno Mioli e Franco Pittau. Il secondo, coordinatore del Dossier statistico sull’immigrazione della Caritas romana, disegnando il “contesto multireligioso in Italia”, ridimensiona quasi della metà la cifra di un milione di musulmani sparata negli anni passati da alcuni organi di informazione. Entrambi, fedeli allo spirito conciliare, auspicano il dialogo inter-religioso e il riconoscimento, tramite intese, delle confessioni minoritarie da parte dello stato italiano.
Quanto multiforme sia l’universo musulmano è mostrato, fra l’altro dai saggi di Adriana Piga e Luigi Perrone, sull’Islam senegalese, d’impronta sufi, marabuttica, popolare (e connotato, come sottolinea Piga, “da una capacità sorprendente di adattamento ai mutamenti sociali, economici e politici”). La prima ne analizza il quadro diffondendosi sulle analogie-differenze fra le confraternite più importanti; il secondo si sofferma sulle pratiche religiose in diaspora e sul ruolo della ritualità tradizionale e dei marabutti fra le comunità immigrate. Il caso del muridismo e il ruolo della dahira (associazione religiosa di mutuo soccorso) nelle società d’arrivo dei migranti esemplificano in modo lampante come l’Islam possa essere fattore di modernità e integrazione.
A smentire ancora un cliché, Stefania Alotta, sulla base di interviste a coppie dette miste, suggerisce che l’intesa coniugale fra persone di diversa cultura e religione risieda, più che nella reciproca accettazione della diversità, in una visione aperta e processuale della propria identità. Di donne migranti e religioni scrivono I. Serra Yoldi e Clara Silva, indagando la prima il mondo delle maghrebine in Spagna e la seconda il rapporto delle capoverdiane in Italia col cattolicesimo, spesso agito come strumento di aggregazione e perfino di rivendicazione. E sulle chiese cristiane (pentecostali e ortodosse), dette etniche in quanto intrise di elementi “tradizionali” dei paesi di origine (meglio sarebbe dire sincretiche), scrive Luigi Berzano. E la storica importanza in Africa dei sincretismi religiosi, spesso profetici e millenaristi (e che hanno accompagnato i movimenti indipendentisti), dovrebbe renderci cauti nell’uso di categorie astratte e totalizzanti quali “la religione africana”, che pure appaiono nel libr. Di religioni africane parla, al plurale, Ndjok Ghana, per decostruire le categorie eurocentriche di animismo e paganesimo. E Chiara Mellina indaga su come parole e concetti religiosi “esotici” siano migrati nei contesti semantici occidentali, modificandosi e deformandosi. Fedeli al precetto di “curare secondo cultura”, i neuropsichiatri Sergio e Vittorio Mellina analizzano “un caso ghanese di delirio religioso”; Goffredo Bartocci, seguace della psichiatria transculturale, illustra l’uso del parametro religione nella cura psichiatrica; e Vittorio Dini ricostruisce, attraverso materiali autobiografici, le “memorie corporee” dei migranti.
In Italia, ove l’immigrazione è costituita da un numero altissimo di nazionalità di provenienza, la pluralità religiosa non si identifica con la compresenza di cristianesimo e Islam. Le realtà religiose presenti sono oltre 500, come riferisce Macioti, benché solo una parte sia il prodotto delle migrazioni. Raramente, per esempio, si parla in termini di alterità religiosa (di confucianesimo, taoismo e buddhismo) a proposito della popolazione cinese, una delle più antiche e numerose: i primi nuclei cinesi in Italia risalgono agli anni ’20, come ricorda il saggio di Arnaldo Nesti sul mondo etico-religioso dei cinesi in area fiorentina. Il libro si chiude, opportunamente, col saggio di Giovanni Ferrari sull’intolleranza religiosa come fattore di persecuzione e sulla condizione, giuridica e umana, dei richiedenti asilo in Italia.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2000014924