Gli scarti sociali in rivolta

Ora che nelle banlieues i fuochi sono spenti, il rischio che corriamo è d’essere sommersi da una valanga di commenti e analisi. Com’è accaduto per i ricorrenti affaires del «velo», anche i tumulti d’autunno stanno ispirando un’ipertrofia mediatica che non è sicuro giovi alla loro comprensione. Ognuno, infatti, si esercita a leggere in questo spontaneo scoppio di rabbia collettiva, per molti versi sfuggente e indecifrabile (Marco Bascetta, il manifesto del 11/11/2005), ciò che la propria filosofia politica gli suggerisce; e per lo più senza tentare di dare la parola ai giovani protagonisti della rivolta (perciò tanto più apprezzabile è l’inchiesta sul campo di Alessandro Mantovani, pubblicata nei giorni 11, 13, 15, 16 , 17, 20 e 24 novemebre 2005). Anche chi scrive corre questo rischio: per scongiurarlo, può provare ad analizzare l’evento con sobrietà, mettendo in questione certezze proclamate a gran voce. I tumulti d’autunno non sono stati una «intifada», né la prova generale dell’insurrezione «islamica» contro lo Stato di diritto, né l’inveramento della profezia dello «scontro di civiltà» e neppure l’annuncio dell’insurrezione proletaria o della sollevazione della «moltitudine». Non sono stati un evento straordinario e inaspettato, ma del tutto prevedibile: chi ha sgranato gli occhi di fronte a questi riots «così poco francesi» forse non conosce la realtà politica e sociale della Francia e, certo, non ha mai messo piede in una cité.

In cerca di rispetto

Ciò che si può dire ragionevolmente è che la violenza distruttiva e autodistruttiva con cui si sono espressi disagio sociale, malessere e insofferenza della gioventù banlieuesarde, è stata, intenzionalmente o non, uno strumento per rompere il muro della segregazione, rendersi visibili nello spazio pubblico, attrarre l’attenzione della politica e dei media. Ma, prima ancora, un’auto-attestazione d’identità. «On n’est pas des racailles mais des êtres humains. On existe. La preuve: les voitures brûlent» («Non siamo feccia ma esseri umani. Esistiamo. La prova? Le auto incendiate»): la frase lapidaria di un sauvageon diciottenne intervistato da Le Monde lo dice più efficacemente di qualsiasi analisi dotta. E mette in discussione un’altra certezza: si può affermare senza dubbio alcuno che si è trattato di una rivolta del tutto priva d’oggetto e di parola? Oppure la rivendicazione di rispetto che – insieme al «non si può andare avanti così», come ha osservato Bascetta – accompagna e accomuna le rivolte metropolitane è in fondo una parola d’ordine politica, per quanto elementare? Dunque, non è infondata l’ipotesi interpretativa che legge questo genere di tumulti metropolitani, benché scomposti, rabbiosi, furiosi, attraverso la categoria delle lotte per il riconoscimento: anzitutto dello statuto di esseri umani, che gli effetti economico-sociali della globalizzazione neoliberista e i ciechi automatismi della discriminazione e del razzismo tendono a denegare agli «scarti sociali».

L’unica novità della rivolta d’autunno è che si è manifestata con una dilatazione temporale e territoriale inusitata. In realtà, essa è il frutto una latenza endemica, alimentata da molti anni di disprezzo coloniale e di discriminazione ai danni delle popolazioni «d’origine immigrata» e punteggiata da una miriade d’insorgenze analoghe, spesso in reazione a morti «accidentali» conseguenti ad interventi delle forze dell’ordine. Il meccanismo è solitamente lo stesso: un’esplosione di rabbia collettiva al termine di una serie di retate, soprusi e violenze poliziesche, talvolta esiziali. Secondo la stima di Maurice Rajsfus (La police et la peine de mort, Esprit Frappeur, 2002), nell’arco di tempo che va dal 1977 al 2001 le bavures delle forze dell’ordine hanno prodotto 196 omicidi.

Inclusione negata

Da lungo tempo antropologi e sociologi (Didier Lapeyronnie, fra gli altri) suggeriscono che il desiderio di essere visti, riconosciuti e considerati sia una delle chiavi per comprendere le rivolte metropolitane che, almeno dagli anni Ottanta del Novecento, scoppiano ciclicamente nelle cités francesi come nelle inner-cities britanniche. Un’ipotesi del tutto plausibile se si ammette che l’esclusione e la segregazione hanno un carattere non solo economico e sociale ma anche politico e simbolico. In Francia, la formazione di zone di marginalità e di segregazione è fra l’altro l’effetto della dissoluzione delle banlieues rosse, della decomposizione del mondo industriale e operaio, e delle sue forme d’organizzazione e di rappresentanza. Nel passato anche recente, il conflitto sindacale e politico aveva concorso all’integrazione nella cittadinanza repubblicana d’ampi settori popolari «d’origine immigrata». Oggi non è più così: per le fasce giovanili dei quartieri popolari – disoccupate e precarizzate – la costruzione dell’identità individuale e di gruppo non passa più attraverso il lavoro, la produzione, l’impegno sindacale o politico, ma attraverso il consumo, le mode, gli stili. E attraverso un antagonismo irriducible con i flics, potente fattore d’identificazione con un noi contrapposto a loro. Esclusi, dunque, anche dalla possibilità di accesso allo spazio politico, i giovani delle «zone urbane sensibili» sembrano avere come unici mezzi d’espressione pubblica a disposizione le rivolte e le violenze urbane, mentre una mediocre politica ufficiale perpetua l’illusione di poterle dominare con gli strumenti sicuritari e repressivi.

La rivolta banlieuesarde è certamente il frutto d’una condizione quasi-castale: la maggioranza dei figli e nipoti dell’immigrazione coloniale non ha alcuna speranza di mobilità sociale, condannata com’è a ereditare lo status dei genitori o dei nonni, o addirittura ad essere declassata. La prospettiva dell’inserimento lavorativo e sociale è assai sfuggente se, come ha rilevato un’indagine, chi abbia un cognome che suona arabo o africano ha sei volte in meno la possibilità d’essere convocato per un colloquio di lavoro, rispetto ad un coetaneo franco-francese. Da parte istituzionale, una delle poche risposte non-repressive date alla grande questione sociale che sta dietro la rivolta è la proposta di abbassare l’obbligo scolastico a 14 anni, rendendo possibile l’avviamento al lavoro della fascia dai 14 ai 16 anni: il che equivale alla condanna definitiva dei giovani delle 752 zone urbane sensibili al loro destino di reietti.

Ma la rivolta è anche l’esito della frattura con una politica lontana come la luna dalle spettrali cités: territori d’Oltremare, occupati militarmente da forze dell’ordine che si comportano come un esercito coloniale, e che operano retate, controlli e fermi indiscriminati sulla base della facies: tanto più sospetta, una facies «araba» o «africana», se è di giovani, e abbigliati secondo lo stile hip-hop in voga nelle metropoli di tutto il mondo.

La distanza fra chi è dentro e chi è fuori, che marca profondamente i rapporti sociali del nostro tempo, è definita da frontiere anche simboliche. Coloro che sono «fuori», infatti, sono spesso anche etnicizzati, razzializzati, stigmatizzati. Negli anni `80 si comincia a identificare gli zonards con gli immigrati e a rappresentare la banlieue come l’alterità assoluta, popolata da ogni sorta di racaille (delinquenti, prostitute, drogati). I Novanta (come osserva Hugues Bazin in un bel libro del 1995, La culture hip-hop) sono gli anni dell’etnicizzazione delle banlieues e della loro assimilazione ai ghetti americani. V’è, in Francia, tutta una retorica miserabilista – in fondo razzialista e neocoloniale – sulle periferie urbane, che ne cancella la complessità e ne legge ogni pratica sociale ed espressiva, ogni rivendicazione, ogni forma di socialità o di solidarietà in termini di «comunitarismo», parola che in francese evoca il peggiore dei mali.

Il collante identitario della giovane generazione di banlieue è una cultura metropolitana «meticcia» (ma tutte le culture lo sono): quella propria, in tutt’Europa, di periferie svantaggiate ed etichettate negativamente, ove dominano disoccupazione di massa, precarietà, segregazione, smantellamento dei servizi pubblici, sentimento d’esclusione; ove i giovani ascoltano la medesima musica, comunicano tramite i blog, parlano qualche forma di slang, indossano le stesse felpe con cappuccio, gli stessi berretti con visiera, le stesse scarpe da jogging; hanno in definitiva la stessa rabbia e le stesse aspirazioni. E’ anche per questo che la rivolta ha potuto diffondersi ben oltre la banlieue parigina.

Ammesso che, a proposito di questa cultura, si possa parlare d’etnicità, essa ha una valenza anzitutto reattiva, poiché si costruisce soprattutto sulla base del fatto che ci si sente oggetto di disprezzo e di non-riconoscimento. L’eventuale riferimento all’Islam da parte dei sauvageons – in gran parte cittadini francesi che non conoscono una sola parola d’arabo – può essere considerato uno dei tanti referenti etnoidi, al pari dello stile rasta o zulu: reinvenzione immaginaria di una tradizione, contrassegno identitario di una condizione marginale, risposta alla stigmatizzazione e all’anomia, tant’è vero che è adottato anche da giovani franco-francesi che abitano nelle stesse zone urbane sensibili e vivono la medesima condizione sociale.

Assimilazione bruciata

La rivolta dell’autunno ha potentemente contribuito a palesare che la retorica universalista è ormai una coperta lacera e insufficiente a coprire la realtà di un apartheid sociale e territoriale, rafforzato e alimentato da processi d’esclusione simbolica. Le istituzioni e la cultura mainstream francesi hanno sempre disprezzato il modello multiculturalista all’anglosassone, statunitense in particolare, come produttore d’orrendi ghetti e di risibili etnicismi, continuamente evocando il fantasma del comunitarismo. La realtà ci mostra che, al di là della retorica dei modelli d’integrazione nazionale, comparabili sono gli effetti sociali dell’esclusione e del razzismo, e le risposte reattive della racaille. Il fuoco appiccato nelle cités consuma l’illusione dell’assimilazione senza inserimento sociale, della neutralizzazione delle differenze senza il conferimento della pienezza e dell’effettività dei diritti di cittadinanza.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003081052