Antisemitismo, con delitto

Il fatto di cronaca, avvenuto di recente nella regione parigina, è ben noto e, per quanto atroce, forse sarebbe stato presto archiviato dai mass media se la vittima non fosse stata un giovane ebreo: Ilan Halimi, sequestrato per ventitrè giorni e torturato a morte da una banda di giovani balordi, che avevano tentato invano di estorcere alla famiglia, di modeste condizioni economiche, un cospicuo riscatto. Certo, il crimine ha tutti gli ingredienti per attrarre i mezzi di comunicazione, appassionare il pubblico, soddisfare pulsioni necrofile: uno scenario da film dell’orrore, una banda che si è data il nome di barbarians, una bella ragazza reclutata dalla gang per adescare la vittima, il presunto capo-banda che fugge in Costa D’Avorio, le umiliazioni, le torture, lo strazio smisurato inflitti alla vittima, tali da far ipotizzare agli inquirenti una mimèsi delle immagini di Abu Ghraib, quale perverso effetto della comunicazione globale. D’altra parte, come alcuni hanno osservato, l’intero svolgimento del crimine sembra imitare la trama e le immagini di un film di Christian Tavernier, L’Appât, che a sua volta era stato ispirato da un fatto di cronaca. Tuttavia, gli elementi che hanno fatto scattare l’attenzione dei mass media, sollecitato mobilitazioni di massa e trasformato un crimine abietto in un affare di Stato sono stati soprattutto l’appartenenza religiosa della vittima e il sospetto di un movente antisemita: la vittima sarebbe stata scelta in base al pregiudizio che vuole che ogni ebreo sia ricco; le torture inflittegli sarebbero state accompagnate da insulti antisemiti. V’è stato chi si è affrettato a leggere l’omicidio secondo il consueto schema che riconduce ogni male alla banlieue, alle popolazioni d’origine immigrata, al «comunitarismo», parlando d’una gang organizzata su base etnica, quando invece a connotarla è proprio la mixité (fra i criminali vi sono «franco-francesi» come giovani d’origine ivoriana, portoghese, maghrebina, antillana, iraniana…). Nell’ex cintura rossa Alcuni componenti e il presunto capo della gang – che peraltro appartiene ad una famiglia operaia senza particolari problemi sociali – sono di un quartiere popolare di Bagneux, una cittadina a soli due chilometri dalla Porta d’Orléans, collegata con Parigi da una fitta rete di servizi di trasporto pubblico. Bagneux fa parte di ciò che resta della «cintura rossa»: ben amministrata da una giunta di sinistra, ha per sindaco una comunista sensibile ai temi «dello sviluppo urbano sostenibile», come scrive di se stessa, ed ostile alle politiche liberiste del governo «che alimentano disuguaglianza e precarietà». E’ qui, dove le strade portano nomi di partigiani e la sala comunale delle feste è intitolata a Léo Ferré – e dove non vi sono problemi d’emarginazione sociale e di segregazione urbana di particolare acutezza – che è potuto accadere che un giovane fosse tenuto prigioniero e torturato per alcune settimane nello scantinato di uno stabile abitato, senza che alcuno se ne rendesse conto. L’orrendo delitto ha suscitato grande emozione collettiva e non solo nella comunità ebraica. Come spesso accade in Francia, all’emozione si sono accompagnate feroci polemiche. Da una parte, coloro che hanno dato subito per scontato il carattere antisemita del crimine: la madre della vittima e la comunità ebraica, anzitutto, poi i massimi rappresentanti delle istituzioni e del governo (che parteciperanno compatti alle commemorazioni e manifestazioni pubbliche), i più importanti partiti politici e, paradossalmente, le formazioni d’estrema destra, antisemite e negazioniste. Sul versante opposto e in posizione minoritaria coloro che hanno invocato discrezione e prudenza, denunciando i tentativi di strumentalizzare il delitto per fini elettorali e di politica estera, e paventando un’ulteriore stigmatizzazione della racaille. Alcuni hanno protestato che le vittime di omicidi razzisti appartenenti ad altre minoranze non hanno meritato la stessa attenzione dei mass media, del governo, della classe politica, né suscitato un’ondata emotiva e un’indignazione comparabili. Le stesse autorità che si occupano del caso si sono divise: i giudici istruttori hanno accolto l’aggravante dell’antisemitismo, sostenendo che lo stereotipo che vuole che ogni ebreo sia ricco è parte del movente e che le sevizie inflitte alla vittima hanno una connotazione razzista; secondo la procura e gli inquirenti, invece, il fatto che la cultura degli autori del delitto sia venata da antisemitismo non è sufficiente a definire il crimine come razzista, essendo il principale movente non l’antisemitismo ma l’estorsione di denaro. Riflettori al massimo E’ vero: per ragioni non tutte riconducibili ad un preciso disegno e ad interessi elettorali e politici, sul caso Halimi i riflettori sono stati accesi con la massima potenza. Altrettanto vero è che si è corso il rischio che la presunzione e l’enfatizzazione di un’incerta connotazione razzista del crimine alimentassero l’astio e le tensioni interetniche. Tuttavia, per quanto fondata, saggia e garantista sia questa posizione, è dubbio che l’assassinio di Ilan Halimi possa essere banalizzato come un qualsiasi fatto di cronaca nera. Né lo si può analizzare compiutamente ricorrendo a vaghe spiegazioni socio-psicologiche che evocano il vuoto morale di una gioventù emarginata, privata di futuro e di speranza, e perciò tanto attratta dagli oggetti-simbolo del consumismo da ricorrere a qualsiasi mezzo per procurarseli. In quest’episodio v’è qualcosa che eccede lo stesso carattere efferato del crimine. E’ vero, di delitti accompagnati da sadismi atroci la cronaca nera è piena: basta ricordare un caso italiano, quello di Pietro De Negri, detto «er canaro», che nel 1988 uccise la sua vittima dopo avergli inflitto ogni sorta di umiliazioni, torture, nefandezze. Il di più sta nella pregnanza simbolica che quest’omicidio ha messo in scena: gli stereotipi antisemiti e la totale de-umanizzazione della vittima; la mimèsi delle immagini provenienti dall’universo carcerario iracheno, a tal punto interiorizzate dai sequestatori da divenire, come sembra, modus operandi del delitto; infine, il clima in cui si è inserito il fatto di cronaca, avvelenato da una crescente polarizzazione identitaria, dalla sua strumentalizzazione politica, dal riflesso delle vicende internazionali su un tessuto sociale già disgregato dalle politiche neoliberiste, dalle scelte governative, da un razzismo sistemico che aggrava l’emarginazione e la precarietà di numerose fasce, soprattutto giovanili, di popolazione «d’origine immigrata». In realtà, lo stereotipo che connette gli ebrei al denaro è uno dei fili che legano l’antisemitismo storico a quello dei nostri giorni; e così il tema secondo cui dietro ogni persona di religione o di cultura ebraica vi sarebbe una comunità ricca e potente. Stereotipi di tal genere appartengono ad un repertorio sedimentato ed implicito negli immaginari collettivi, che in determinati contesti e circostanze storiche può essere riattivato con funzioni le più varie. In Francia, il lepenismo ha reso moneta corrente l’antisemitismo e il negazionismo; e la Nouvelle Droite (bazzicata perfino da certe ambigue sette dell’ortodossia «marxista», anche italiana, antisemita ed ostile all’immigrazione) ha contribuito a conferire ad essi legittimazioni più o meno dotte. Ma è indubbio che v’è anche un antiebraismo «spontaneo» che alligna in eleganti quartieri parigini come nei ghetti urbani. In certi ambienti connotati da segregazione e marginalità, dove la discriminazione, la stigmatizzazione, il razzismo sono patiti quotidianamente, il risentimento, il senso d’impotenza, la rabbia conseguenti possono nutrire, reattivamente, cliché e stereotipi: l’ebreo può allora essere percepito come il «diverso» che si è integrato ed ha avuto successo e che dunque rappresenta le istituzioni e la società dominante. «Orgoglio africano» Umori di tal genere serpeggiano sotterraneamente nel corpo sociale e talvolta emergono in forme più o meno esplicite. Benché ciò che circola nella rete non sia rappresentativo di orientamenti collettivi, poiché spesso ne esprime il peggio, possiamo assumere come indizio un forum sull’omicidio di Halimi, ospitato in un sito francese dell’«orgoglio africano» (da alcuni anni in Francia sono comparsi gruppuscoli, marginali e non rappresentativi della comunità nera, i quali predicano la separazione delle «razze» se non la superiorità della «razza negra»). I partecipanti – che si definiscono nègres, e non si tratta solo di una forma di «rovesciamento dello stigma », ma d’un termine con intonazioni razzialiste – mostrano di condividere, con rare eccezioni, i peggiori cliché antisemiti: «gli ebrei sono ricchi, potenti, solidali fra loro»; «la Shoah non è stato l’unico genocidio della storia, ma loro si fanno passare sempre per vittime»; «gli ebrei hanno partecipato alla tratta dei nègres e sono responsabili del nostro sfruttamento ». Non mancano affermazioni del tutto deliranti: «dopo aver accusato di antisemitismo Farrakhan, Michel Jackson e Dieudonné, scrive uno, ora i bianchi di nuovo rilanciano la figura del nero antisemita». Non è il solo esempio. La rete è ormai densa di siti che incitano all’odio razzista, in un perverso gioco speculare: basta ricordare un caso di qualche anno fa, quello di sos.racaille. org, frutto della convergenza fra estremisti cristiani-nazionalisti ed ebrei integralisti, un sito nel quale si manifestava una tale violenza verbale antiaraba ed antiislamica da meritare l’attenzione della magistratura. L’antiebraismo non è certo monopolio dei «quartieri sensibili» e dei giovani d’origine immigrata, come sostengono una certa stampa e una certa pubblicistica: a farne un’opinione come un’altra hanno provveduto anzitutto gli imprenditori politici dell’islamofobia e dell’antisemitismo. In un clima avvelenato dall’acutezza dei problemi sociali, dal razzismo neocoloniale, dalle fratture e dalle polarizzazioni seguite all’11 settembre, il rischio è che la strumentalizzazione di un crimine atroce, che meglio sarebbe stato affidare alla sola verità giudiziaria, segni un’ulteriore tappa verso l’autorealizzazione della profezia dello scontro di civiltà.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003086895