La perversione del linguaggio politico della sinistra

«Quanto più si dissolve l’aspettativa razionale di un mutamento reale del destino della società», tanto più rispettosamente i dirigenti «venerano gli antichi nomi: massa, solidarietà, partito, lotta di classe». Così scriveva Adorno in uno dei frammenti di Minima Moralia. Basta eliminare «lotta di classe», caduto in disuso, ed aggiungere «nonviolenza», «pace», «movimenti» perché quel lucido frammento ridiventi attuale.

Non aggiungo niente all’analisi di Marco Revelli, che condivido parola per parola. Vorrei solo introdurre un ulteriore piano di lettura dello spettacolo offerto dai dirigenti comunisti d’un tempo, oggi divenuti ferventi paladini della governance a tutti i costi. Il piano è quello semantico, per usare un termine colto. La progressiva perversione del linguaggio e della comunicazione che ha accompagnato questi mesi di governo è cosa che lascia allibiti. Se lo stile berlusconiano era all’insegna della menzogna aperta, trasparente e fanfarona, quello dell’attuale governo e dei suoi partiti ha qualcosa di orwelliano e contorto, al tempo stesso grottesco. Quando le parole sono usate a stravolgere l’esperienza e la realtà fanno più danni perfino dei contenuti delle politiche. Non solo perché ingannano i cittadini, gli elettori, i militanti, considerandoli minus habentes, incapaci di farsi un’idea della realtà (nell’èra della comunicazione globale!). Ma soprattutto perché minano profondamente il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e alimentano sfiducia. Occultare la dura realtà delle concessioni – obbligate, ci dicono, e forse è vero – ai poteri forti e agli orientamenti «moderati» (un altro termine da abolire!) con il ricorso a formule autoconsolatorie ed ingannevoli – quale la litania della «discontinuità» – è una forma di perversione della comunicazione a lungo andare autolesionistica. Salutare con entusiasmo la furbesca relazione del ministro degli esteri sulla politica internazionale come una scelta limpida e avanzata in favore del «multilateralismo» (un’altra parola magica: una guerra può essere multilaterale e nondimeno illegittima, ingiusta, sanguinosa) è far torto alla propria storia politica e all’intelligenza dei cittadini e degli elettori.

V’è qualcosa di orwelliano nella lingua assunta da certi parlanti governativi, anche della «sinistra radicale». Pensavamo che l’accusa d’essere anime belle, rivolta a chi non vuole tradire la propria coscienza morale, appartenesse storicamente al linguaggio della destra e dello stalinismo, tanto è intrisa di disprezzo verso chi pensa che i principi etici e politici, la dimensione dell’idealità siano inscindibili dalla pratica politica.

Oggi i rari disertori della guerra imperialista tornano ad essere ingenui idealisti e soggettivisti, secondo un tipico gergo di marca staliniana (chi scrive fu espulsa, verso la fine degli anni Settanta, da un partitino emme-elle, diretto fra gli altri da un membro dell’attuale governo, con l’accusa di deviazionismo, politico e morale, e di soggettivismo, per l’appunto).

V’è un altro piano che conviene considerare. E’ sconfortante che degli ex sostenitori dell’internazionalismo proletario, poi convertiti all’altermondialismo, siano prigionieri d’una visione così ristretta e provinciale della politica.

La vicenda minuta del governo d’un piccolo paese occidentale val bene per loro i «sacrifici umani», per citare Revelli, ma in senso letterale: le stragi di civili, la devastazione degli stati-canaglia, insomma le ingiustizie e le tragedie che si consumano su scala internazionale. Niente di nuovo, in realtà: quante volte nel passato i partiti operai hanno sacrificato al nazionalismo il dovere della solidarietà internazionale, facendosi complici di politiche razziste, coloniali e neocoloniali.

Basta pensare al sostegno dato dai partiti di sinistra francesi alla feroce politica coloniale in Algeria. Anche allora (era il 1960) centosessantuno anime belle, il meglio della cultura francese, rivendicarono in un manifesto il diritto all’insubordinazione: «Non vi sono forse dei casi – scrivevano – in cui il rifiuto è un dovere sacro e il ‘tradimento’ significa coraggioso rispetto della verità?». Fu anche grazie alla testimonianza di quegli ingenui idealisti che negli anni seguenti non ci si dové vergognare d’essere di sinistra.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003105998