Una buona legge ma poco coraggiosa

Un netto passo avanti se il paragone è con le aberrazioni della Bossi-Fini, un passetto deciso ma un po’ corto, se il riferimento è al Testo unico: così, assai sinteticamente, si potrebbe valutare la legge delega Amato-Ferrero. Conviene ricordare che la prima aveva reso ben più restrittive, vessatorie, repressive le condizioni dettate dalla Turco-Napolitano. Ma quest’ultima era, a sua volta, il frutto di una visione ambivalente: se conteneva articoli volti all’inclusione sociale e all’equiparazione fra stranieri regolari e cittadini italiani, conservava non pochi residui dell’ideologia che attribuisce al migrante uno statuto differenziato e all’immigrazione una valenza sempre problematica. La legge-delega sembra voler andare oltre. L’abolizione del contratto di soggiorno, la proposta di termini più realistici di programmazione dei flussi, l’allargamento delle maglie e la pluralizzazione dei canali d’ingresso regolare, la reintroduzione dello sponsorship per ricerca di lavoro, il raddoppio dei termini di validità dei titoli di soggiorno, la semplificazione delle procedure, l’embrionale civilizzazione delle competenze in materia di permessi di soggiorno, il riconoscimento dei titoli professionali conseguiti all’estero: tutto ciò non può che migliorare la condizione materiale e giuridica dei migranti e contribuire a correggere – cosa non meno importante – le percezioni e le rappresentazioni sociali dello straniero. Tuttavia residua, e non lievemente, l’idea del diritto speciale: i Cpt si prevede che siano superati e/o trasformati, e resi un po’ più trasparenti, ma non è abolito l’istituto della detenzione amministrativa. Troppa enfasi, poi, è posta sulla formazione dei migranti nei paesi d’origine: oltre tutto, il sistema delle liste consolari non sembra agevolmente praticabile, a chi conosca appena un poco lo stile e la prassi di ambasciate e consolati italiani. Infine, di frontiera si continua a morire, anche quando il governo è di centro-sinistra: l’adesione dell’Italia al programma europeo Frontex, gli accordi bilaterali, i lager oltre frontiera, insomma le misure volte a contenere i flussi irregolari sono tuttora in vigore e costano ecatombi quotidiane.

Ciò che non si è compiuto, in sostanza, è il salto di paradigma: il passaggio da un modello che vede nella condizione migrante un’eccezionalità da controllare, separare, disciplinare con leggi più o meno speciali ad un modello che, realisticamente, considera la migrazione come la cifra del nostro tempo e conseguentemente considera e tratta da cittadini a pieno titolo i residenti nel territorio, qualunque sia la loro provenienza e nazionalità. E’ forse ingenuo ed illusorio pensare che un tale salto di paradigma possa essere compiuto da rappresentanti del governo, per quanto sensibili, aperti, benintenzionati (e il ministro Ferrero certamente lo è). Esso non può che maturare nella società attraverso la rivendicazione, il conflitto, la soggettivazione dei migranti. E tale maturazione è la condizione perché il mezzo passo in avanti della legge-delega non rimanga lettera morta, ma anzi sia trasceso da equilibri più avanzati.

Di sicuro non va in questa direzione la bislacca Carta dei Valori (dei valori, si badi bene, non, laicamente, dei princìpi), varata dal ministro Amato e partorita da una commissione presieduta, non per caso, da un esperto di diritto ecclesiastico. Della diade homo laboriosus-homo religiosus in cui sono imprigionati i migranti, la Carta esalta il secondo polo. Essa, infatti, sembra ispirata dal pregiudizio che i migranti – quelli musulmani in ispecie – siano condizionati da rigidi sistemi di valori di tipo barbarico e/o tradizionalista, immaginati come talmente opposti ai Nostri da richiedere un trattamento speciale e differenziato: a noi la Costituzione, a loro una Carta, che ribadisce enfaticamente princìpi sobriamente sanciti dalla Costituzione e stigmatizza pratiche peraltro vietate dal diritto ordinario. Il salto di paradigma non si compirà, certo, perpetuando visioni neocoloniali.

* antropologa

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003108926