Discutendo di forme di lotta e di soggettività

, da Liberazione, 21 dicembre 2010

Com’era prevedibile, la follia repressiva e autoritaria del potere si è scatenata senza freni. Non per caso, i portavoce più strepitanti ne sono i fascisti mai pentiti che siedono sui banchi del governo: gli ex mazzieri, gli specialisti in strategia della tensione, che oggi propongono arresti preventivi da ventennio fascista, straparlano di potenziali assassini nei cortei e di emergenza-terrorismo, invocano un nuovo 7 aprile, cioè la replica, in un contesto addirittura più nefasto, dell’eclissi della ragione giuridica. Micidiale è la trappola che essi, col concorso decisivo del ministro dell’Interno, cercano di tendere al movimento: infiammare gli animi, spingere le manifestazioni verso esiti incontrollabili, invischiare la protesta nella spirale repressione-rivolta-repressione, utilizzare questa spirale come stampella per sorreggere un governo screditato, illegittimo, ridotto a comitato d’affari della borghesia più reazionaria, potenzialmente golpista.

E’ accaduto molte volte nell’ultimo quarantennio, dal quale, al contrario di quel che sostengono certi commentatori di sinistra, penso che qualcosa forse si potrebbe imparare. L’argomento per cui ogni tempo ha la sua propria cultura di movimento e di piazza, così che sarebbe del tutto anacronistico fare comparazioni fra la protesta attuale e altri movimenti, è fondato ma non assolutizzabile. Si rischia, infatti, di essere subalterni alla società dello spettacolo, alla sua tendenza a ridurre ogni evento alla nuda attualità.

Certo, la peculiarità di questa protesta è assai densa. Se solo analizziamo le forme in cui si è espressa il 14 dicembre la rivolta verso la controriforma Gelmini, il governo, le sue politiche dissennate, constatiamo, fra le altre cose, che è la prima volta nella storia dei movimenti italiani dal ’68 in poi (almeno a mia memoria, molto lunga) che gli scontri di piazza degenerano in diffusi corpo-a-corpo fra manifestanti e forze di polizia. E’ la prima volta che si rende tanto visibile e dilatata la cultura da stadio (uso questa formula in modo neutro), compreso l’uso di petardi e fumogeni. Non c’è di che scandalizzarsi: la stessa controcultura delle curve è uno specchio che rende visibili, esasperandole, la conflittualità sociale, le sue contraddizioni, la violenza che percorre le istituzioni e la cultura dominante.

A proposito di queste forme: è almeno dalla rivolta delle cités francesi (autunno 2005) che andiamo scrivendo che la violenza apparentemente “cieca” di strati giovanili precarizzati e stigmatizzati (la racaille, i bamboccioni…) è strumento per rendersi visibili nello spazio pubblico, attirare l’attenzione dei media, attestare la propria soggettività e le proprie rivendicazioni. Abbiamo scritto anche che le rivolte nella forma dei riots – destinate a moltiplicarsi – sono figlie del tempo in cui una frattura drammatica si è aperta fra strati subalterni o subalternizzati della società, sempre più ampi, e la Politica, in quasi tutte le sue espressioni; e perciò fra quegli strati predomina, a giusto motivo, la sfiducia negli strumenti convenzionali della protesta.

Quelle rivolte sono anche lotte per il riconoscimento, abbiamo detto. Ma se l’auto-attestazione di soggettività e la rivendicazione di riconoscimento dovessero ridursi alla ricerca di visibilità mediatica, su questo terreno i subalterni sarebbero destinati a perdere. Non solo a causa del potere repressivo e del controllo proprietario che le classi dirigenti esercitano pure sui media; ma anche perché, come scriveva Guy Debord, “Là dove domina lo spettacolare concentrato, domina anche la polizia”. E con essa la follia repressiva e autoritaria.

E allora perché mai non si dovrebbe tentare d’immaginare, per comparazione, appunto, i possibili esiti nefasti e le strategie per scongiurarli? Per quale ragione sarebbe precluso apprendere qualcosa, per esempio, dalle forme del quasi unico movimento che riuscì a non farsi intrappolare nella spirale di cui ho detto? Alludo, ovviamente, al movimento femminista degli anni ’70. Che riuscì a imporsi e ad esercitare egemonia con pratiche, anche di massa e di piazza, all’insegna della creatività comunicativa, dell’ironia e dello sberleffo, della capacità di sorprendere e disorientare il potere e i dominanti.

Di solito a questo argomento si oppone non solo la differenza radicale di contesto sociale, politico, storico, che è innegabile, ma anche la “rabbia” di una giovane generazione precarizzata, espropriata di potere, di futuro, di rappresentanza politica. Come se a quel tempo le donne non fossero ugualmente dominate, ugualmente non-rappresentate e private di potere e parola pubblica. Che dicano la propria “rabbia” i giovani protagonisti del movimento è cosa ovvia e comprensibile. Ma, quando è detta da altri, essa, che non è una categoria politica o sociologica, rischia di diventare retorica vitalistica.

Al di là della retorica, sarebbe auspicabile che prima o poi la “rabbia” fosse sublimata in qualche forma politica, inedita e di base. E’ impresa ardua e non spetta a noi dare lezioni. Ma ho l’impressione che per il movimento sia una questione di vita o di morte.

(21 dicembre 2010)

 

fonte: https://archivio.micromega.net/discutendo-di-forme-di-lotta-e-di-soggettivita/