Dopo quelle dei caroselli in piazza San Giovanni, una delle immagini più impressionanti dell’esito rivoltoso del 15 ottobre a Roma è la statua infranta della Madonna che “siede” sullo sfondo di fuochi che ardono lontano. È l’emblema perfetto della “guerriglia” (il termine mediatico è abusato, improprio, in fondo nobilitante) che ha devastato non solo la città, ma soprattutto l’imponente manifestazione popolare e le sue sacrosante ragioni, di fatto conculcando il diritto di manifestare a centinaia di migliaia di persone. Per chi è credente è un atto sacrilego. Per chi non lo è, come chi scrive, quel gesto iconoclasta, in senso letterale, è intollerabile perché inconsapevolmente ripropone la semantica profanatoria – e razzista – del nazismo e del neonazismo, oggi replicata dal leghismo: quella che prende di mira i simboli religiosi degli “altri”, che siano ebrei o musulmani, in tal caso cattolici.
È un gesto che racconta molte cose di quel fenomeno multiforme che i media si ostinano a chiamare black bloc e altri liquidano col termine di infiltrati. Racconta anzitutto di un certo analfabetismo, politico e non solo, tale da impedire perfino di scegliere bersagli simbolicamente adeguati a quel che si vuol esprimere col proprio gesto violento. Il 15 ottobre, infatti, sono stati assaltati non solo sportelli bancari o agenzie interinali, ma anche qualche utilitaria pagata a rate, una bottega di prodotti per pets, con gli animali dentro, un negozio che, non avendo meritoriamente aderito alla serrata, aveva dentro dei commessi, oltre tutto lavoratori precari.
Alcuni hanno scritto che gli incappucciati da corteo non sono apolitici, hanno bensì una visione politica che somiglia molto al no future di altre fasi della storia recente. È una lettura che descrive solo una parte del mélange, mutevole secondo le occasioni, fra realtà diverse: nel caso del 15 ottobre, qualche centinaio di ultrà da stadio, un buon numero di giovani o giovanissimi – fra i quali una frangia di “disagio sociale”, come si dice – perfino una piccola setta ambigua di incappucciati che si definisce partito.
Politici o no che siano, a me sembra che uno dei tratti che caratterizza buona parte di loro, oltre la cultura da stadio e la consuetudine con i videogiochi, è una certa afasia. Che porta a sostituire agli slogan i petardi e i fumogeni, alla comunicazione verbale o gestuale il gusto dell’azione eclatante, non importa se mirata, comprensibile o commisurata agli obiettivi. L’unico davvero centrato, questa volta: lo sbaragliamento di un corteo grandioso che, chissà, forse avrebbe potuto segnare il punto di svolta verso una vera rivolta popolare.
Mentre la battaglia di piazza San Giovanni andava declinando, abbiamo provato a parlare con alcuni di loro, neppure tanto giovani. Non è stato facile, poiché manca il minimo di lessico comune per intendersi. Dal «signora, se ne torni a casa, lei che ha il lavoro e l’appartamento» al «siamo precari per colpa della vostra generazione», mentre un anziano manifestante protestava che sopravvive con una pensione di novecento euro al mese, dopo quarant’anni di lavoro e altrettanti, ininterrotti, di lotte.
Non c’è da scandalizzarsi, certo, se l’uccisione del Padre, che ha sempre caratterizzato lo stato nascente di ogni movimento giovanile di protesta, oggi si esprime in forme più grezze, adeguate al tempo presente dominato dalla società dello spettacolo. La “guerriglia” del 15 ottobre è, infatti, già merce-spettacolo al servizio del mercato dei network, dei media e della politica mainstream, in definitiva della produzione capitalistica. E sappiamo bene – l’abbiamo imparato dai riots inglesi e dalle rivolte nelle cités francesi – che la messa in scena della violenza è anche uno strumento per rompere il muro della segregazione, rendersi visibili nello spazio pubblico, attrarre l’attenzione della politica e dei media: in definitiva, un’auto-attestazione d’identità.
Ma non possiamo cavarcela con le invettive, col paternalismo oppure con la retorica della “rabbia giovanile”, della “ribellione indomabile” della “pulsione sovversiva della gioventù precaria”, retorica che impazza nel web, insieme con le filippiche contro i violenti. Quel che temiamo è che, non essendo disposti a tornare a casa, come l’anziano pensionato militante, saremo costretti d’ora in poi a scendere in piazza separati per generazioni, almeno ideali: i vecchi con i giovani che non odiano i vecchi; e i giovani che odiano i vecchi e la Politica a coltivare la loro “pulsione sovversiva”, d’ora in poi ignudi, malgrado le bardature, di fronte alla polizia e al potere. Privi dello scudo delle moltitudini di manifestanti – che finora hanno usato, diciamolo, in modo più che strumentale – potranno dimostrare se la “rabbia giovanile” è davvero indomabile e se è capace di trasformarsi in rivolta.
Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003188586