La parabola di una città avvelenata e il risanamento impossibile

Era l’alba degli anni sessanta quando vidi per la prima volta un cadavere: il corpo a malapena ricomposto di un ragazzo, compagno di vacanze estive al mare. Per tragica ironia del destino, lui, campione di tuffi, era precipitato da un’impalcatura del cantiere che costruiva l’Italsider di Taranto. Era una delle prime vittime dell’acciaieria, oltre che di una bocciatura scolastica punita con l’obbligo di un lavoro estivo. Lavoro nerissimo, controlli zero e neppure il minimo rispetto della sicurezza: era il sistema, che sarebbe diventato sempre più reticolare, degli appalti e dei subappalti, favorito dalla stessa Italsider per tagliare tempi e costi dei lavori e disporre di manodopera sottomessa. Quello che ho raccontato fu solo uno dei più precoci omicidi bianchi, una lunga teoria che avrebbe scandito la vita quotidiana della città. Già altissimo nella fase della costruzione, il tasso d’infortuni, compresi i mortali, nel 1970 s’impennò a 1.694 ogni 1.000 operai: in sostanza quasi due infortuni l’anno per ogni operaio. Ben presto ai sacrificati direttamente dal profitto si sarebbero aggiunte le vittime dell’inquinamento, la cui entità mostruosa è talmente nota che sarebbe pletorico insistervi. Per dire solo della mia famiglia, all’unica di noi tre sorelle rimasta a Taranto non sono serviti a salvarla dalla morte per cancro l’attivismo ecologista e neppure la sobrietà estrema dello stile di vita. E di cancro si è ammalata buona parte dei cugini che tuttora vi risiedono.

A proposito del sistema degli appalti, è grazie ad esso che nella città dei due mari esordiva e s’infiltrava la mafia che poi si sarebbe organizzata nella Sacra Corona Unita, nella Nuova Camorra Organizzata e in altre reti criminali. Insomma, la “cattedrale nel deserto” e il sistema mafioso stravolsero per sempre non solo l’ecosistema ma anche il tessuto sociale e politico della città, un tempo comunista in buona parte, e produssero alla lunga boss feroci come i fratelli Modeo e loschi figuri come il sindaco Cito, con la sua progenie tuttora sulla breccia politica. Come ha scritto Ornella Bellucci in Il mare che non c’è. Come un’industria può divorare una città (a cura di C. Raimo, 2007), «la dilatazione degli appalti e di un indotto parassitario» sono stati «il brodo di coltura dell’inferno degli anni ottanta, della connivenza tra mafia e politica, delle guerre di mala, dell’implosione del sistema delle partecipazioni statali».

Certo, c’erano stati anni migliori, sul versante del protagonismo e della coscienza operaia e di conseguenza anche su quello delle istituzioni. La fase della riscossa operaia, dal 1969 alla metà degli anni ’70, il ruolo svolto dai consigli di fabbrica, la capacità di saldare le rivendicazioni dei lavoratori garantiti dell’Italsider con quelle dei non garantiti dell’indotto, si riflessero poco più tardi nella famosa Vertenza Taranto, sui temi dell’occupazione e dello sviluppo, che riuscì a coinvolgere l’intero mondo del lavoro e buona parte della società tarantina.

Alcuni giorni fa, in una trasmissione radiofonica, Ferrante, il presidente dell’Ilva – distintasi per una gestione talmente dispotica da avere come emblema il confino degli operai riottosi nelle palazzine Laf – ha parlato, non smentito da alcuno, di «uno splendido rapporto con lavoratori e sindacati». Tuttavia, le larghe intese non sono una novità dell’oggi, con forze sindacali e politiche di fatto alleate col padronato e il governo – rappresentato ora da un ministro dell’Ambiente credibile come una volpe nel pollaio – tutti a far pressione, in modo più o meno esplicito, contro l’imprudenza della magistratura tarantina. La quale in realtà è stata la sola a non dare mai tregua al Gruppo Riva, condannato per la prima volta nel 1982 grazie a Franco Sebastio, allora sostituto procuratore.

Già nel 1958 – ricorda Ornella Bianchi (Il diritto dimezzato, Annali della Fondazione G. Di Vittorio, 2011) – al momento di decidere del polo siderurgico «si saldò a livello locale un’ampia intesa tra istituzioni, forze politiche di diverso colore, associazioni imprenditoriali e le stesse organizzazioni sindacali», solidali nell’ideologia ultra-industrialista, anche se non nell’intera gamma d’interessi. «Non si levò dunque alcuna voce critica – continua Bianchi – contro uno sviluppo ancora una volta artificiale ed eterodiretto, né si espressero dubbi sulla sostenibilità ambientale di una acciaieria così imponente e così a ridosso della città». Più tardi, «neppure i sindacati condannarono i troppi incidenti che cominciavano a scandire la vita dell’Italsider, assegnandogli il triste primato delle morti sul lavoro».

Alle elementari si apprendeva che avevamo il privilegio d’essere nate nella capitale della Magna Grecia, la città di Archita, Liside e altri pitagorici, che conserva la più grande collezione al mondo di ori dell’antichità, la città che a quel tempo aveva la palma del primo ponte girevole, di uno dei più bei tramonti del Mediterraneo e anche del più importante allevamento di mitili al mondo, poi distrutto dall’acciaieria. Intorno alla mitilicoltura, alla pesca e all’agricoltura fioriva una rete di piccole industrie agroalimentari, certo del tutto insufficiente a compensare la disoccupazione crescente, legata alla gravissima crisi economica degli anni ’50, provocata dal declino dell’Arsenale militare e di altri cantieri navali. Ma non era ineluttabile che il destino della molle Tarentum fosse d’essere ingoiata dal mostro avido di sacrifici, partorito dai sogni della coalizione industrialista. Un mostro che insieme alla città ha divorato non solo antiche masserie, reperti archeologici, immense distese di mare, spiagge e pinete, ma anche un numero incredibile di esseri umani, per non parlare dei non umani. È assai dubbio che al punto in cui si è, cioè di distruzione di un intero ecosistema, si possa inseguire la chimera di un’acciaieria compatibile, come vanno promettendo alcuni. E poiché il governo e altri decisori politici hanno scelto di destinare una somma ingentissima non già alla riconversione produttiva, bensì a un irrealistico risanamento, è improbabile che possa risolversi l’antinomia fra il lavoro e la vita.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003201020