La posta in gioco è la rivoluzione

Entrerà nella storia del piccolo eppur importante paese, che ci è così caro, la giornata di venerdì 8 febbraio 2013, segnata dallo sciopero generale in occasione delle esequie pubbliche di Chokri Belaid, il dirigente comunista ucciso da killer professionisti all’alba del 6 febbraio. Entrerà, che lo si voglia o no, anche nella nostra storia, se è vero, al di là della retorica, che un destino comune lega le due sponde del Mediterraneo. È stata una giornata decisiva per la sorte della transizione democratica, con il paese quasi paralizzato dallo sciopero e attraversato, dalla capitale fino alle località più remote, da folti cortei popolari che scandivano slogan contro Ennhadha, il partito islamista che guida la coalizione di governo. Il ministero dell’Interno aveva dispiegato per l’occasione un dispositivo di sicurezza eccezionale, chiamando anche l’esercito a presidiare strade e piazze. Come sempre, mentre i soldati hanno tenuto un contegno composto se non benevolo, la polizia ha fatto ricorso spesso alle maniere forti. Non si è limitata a respingere gli assalti di gruppi rabbiosi e aggressivi o di bande di casseurs, come a Tunisi, Sousse e Sfax, ma ha compiuto anche qualche eccesso. A Djebel Jelloud, nella banlieue sud di Tunisi, dove per i funerali erano convenute decine di migliaia di persone, il gas delle granate asfissianti (i famigerati Cs) è penetrato anche all’interno del cimitero di El Jellaz, mentre la cerimonia era in corso. Assai significativamente, a Sfax la grande manifestazione è partita dalla sede del Fronte popolare per raggiungere quella del sindacato. Sono stati loro due, infatti, i protagonisti di spicco della grande mobilitazione popolare che ha percorso la Tunisia, in un clima di forte tensione ed emozione.

Questa giornata ha rivelato, fra le altre cose, che il Fronte, coalizione tra formazioni di estrema sinistra della quale Belaid era esponente autorevole, non è più un modesto aggregato di piccoli partiti e movimenti. Nel corso del tempo questa coalizione, costituita da militanti che perlopiù non avevano conosciuto altro che l’esilio, la clandestinità o il carcere, è riuscita a ottenere un certo riconoscimento, grazie a un lavoro politico costante e profondo, oltre che all’onestà e al prestigio dei suoi dirigenti. Di questi, Belaid era fra i più carismatici e rispettati, per il coraggio e la franchezza estrema nonché per la biografia personale e politica. Ma il suo assassinio, così tipicamente politico – culmine di un’escalation di violenze contro gli oppositori, spesso compiute dalle famigerate «Leghe per la protezione della rivoluzione», finora protette o tollerate da Ennahdha – ha scosso anche chi non lo conosceva o gli era assai lontano.

Al momento attuale la partita è tutta aperta: l’ulteriore delegittimazione di Ennhadha, le contraddizioni al suo interno, l’empasse istituzionale, la profonda frattura tra il paese ufficiale e quello reale compongono un quadro di grande incertezza, perfino rischioso. Tuttavia, il sussulto profondo e ampio che attraversa la Tunisia è il segno che i cittadini hanno compreso bene quale sia la posta in gioco: in definitiva, la sorte della rivoluzione e della transizione. Per questo di sicuro non abbandoneranno le piazze.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003212274