L’incerto statuto (mediatico) dello stupratore

L’arresto, a Roma, di un cittadino bangladese, accusato di stupro e rapina contro una giovane finlandese, alimenterà l’isterica campagna mediatica che rappresenta la violenza sessista come un’emergenza, invece che come un dato strutturale e trasversale. Trasversale e strutturale come mostra esemplarmente il caso dei due carabinieri di Firenze, indagati per stupro e per ora solo sospesi dal servizio. C’è da auspicare almeno che Claudia Nozzetti, assessora della giunta pentastellata di Venaria Reale, non osi ripetere ciò che ha scritto, in un italiano assai grezzo, sui presunti stupratori alieni di Rimini: «E’ spero che li obblighino a tagliarselo l’un l’altro è a farglielo mangiare».

IL TRATTAMENTO delle notizie relative alla violenza sessista, differenziato secondo la nazionalità o l’origine dei violentatori, è ben esemplificato da quello che solo in apparenza è un dettaglio. A proposito dei presunti stupratori in divisa nessun organo d’informazione ha osato adoperare le pur abituali metafore animalesche (“branco”, “capobranco”, “caccia alle bestie”, nel caso di Rimini) che attribuiscono ai non-umani ciò che, al contrario, è tipicamente umano: un topos odioso quanto dilagante nei più vari media, anche d’orientamento divergente. Né sono mancate, per il caso riminese, le fake news: fra tutte, quella lanciata in un twitter da Alessandro Meluzzi, che pubblicava quattro foto false dei presunti colpevoli, commentate con «Adesso basta davvero con questi schifosi subanimali!»: una bufala subito rilanciata da alcune testate di destra.
INSOMMA, la narrazione mediatica dei due stupri di gruppo commessi a Rimini è stata tanto smodata, volgare, colpevolista a priori, irrispettosa delle regole minime relative alla presunzione d’innocenza e alla tutela dei minorenni quanto quella dello stupro in divisa è cauta, tutta al condizionale, scettica di fronte a prove e testimonianze, costellata da allusioni allo stile di vita e alla moralità delle vittime. Basta citare ciò che ha dichiarato il sindaco di Firenze, Dario Nardella, del Pd, ricorrendo all’indecente luogo comune del “Se la sono andata a cercare”: «E’ importante che gli studenti americani imparino, anche con l’aiuto delle università e delle nostre istituzioni, che Firenze non è la città dello sballo».
In Italia non è affatto nuova la tendenza a selezionare, gerarchizzare, enfatizzare o minimizzare i fatti di cronaca nera secondo il profilo “etnico” dei presunti colpevoli e secondo l’aria politica del momento. E a censurare o a relegare nella cronaca locale crimini, anche orrendi, allorché le vittime siano persone d’origine immigrata o appartenenti a minoranze. Esemplare è il caso del crudele omicidio, nel 2016 in provincia di Parma, di Mohamed Habassi, sottoposto a lunghe torture e mutilazioni da parte di due “rispettabili” cittadini parmigiani: un caso estremo per crudeltà, che infine riuscì a bucare la cronaca nazionale solo grazie al primo dei tre articoli a firma di chi scrive, pubblicati da questo giornale.
NÉ RECENTE è la tendenza a strumentalizzare crimini contro le donne, purché commessi da altri, per compiacere o sollecitare gli umori collettivi più malsani e varare misure legislative di stampo razzista-sicuritario. Ha fatto scuola il “consiglio di guerra” del secondo governo Prodi, convocato dopo lo stupro-omicidio di Giovanna Reggiani, il 30 ottobre del 2007, nel quartiere romano di Tor di Quinto. Un crimine per il quale sarebbe stato condannato all’ergastolo Romulus Nicolae Mailatun, rom di cittadinanza romena. Ma, prima ancora, sarebbe stata colpevolizzata e punita l’intera minoranza rom romena, con la distruzione degli insediamenti e il decreto-legge (181-2007, 1° nov. 2007) che, pubblicato ed entrato in vigore in un batter di ciglia, consentiva l’espulsione di cittadini comunitari.
ESEMPLARE è anche l’isterica campagna allarmistica orchestrata, fra gennaio e marzo del 2009, intorno allo “stupro della Caffarella”, attribuito a due rom romeni, poi pienamente assolti. Fu in quella occasione che Roberto Calderoli e Luca Zaia, ministri del quarto governo Berlusconi, due campioni del celodurismo, proposero la castrazione chimica degli stupratori.
D’allora essa viene rilanciata a ogni campagna che assuma a pretesto casi di stupro reali o immaginari, purché attribuiti a cittadini stranieri. Puntuale, la ha avanzata Salvini per i presunti stupratori di Rimini: «Se colpevoli, minorenni o no, castrazione chimica e poi a casa loro!».  Al contrario, il fenomeno, persistente e strutturale, delle violenze sessuali compiute da cittadini italiani, perfino in divisa, non suscita un tale allarme pubblico, meno che mai proposte tanto barbariche. V’immaginate che scandalo avrebbe suscitato chi avesse suggerito la castrazione chimica dei carabinieri di Firenze, “se colpevoli”?
A TAL PROPOSITO: solo una fissazione fallica di tipo patologico, tanto più se coltivata da mente femminile (mi riferisco alla citata Nozzetti), può indurre a pensare che l'”agente” principale dello stupro sia il pene, cioè un impulso sessuale incontrollato, invece che la volontà e il desiderio, inconscio o consapevole, di umiliare, punire, annientare le donne.
NON È NUOVO, anzi è antico come i linciaggi, il tema del “diverso” che insidia le nostre donne. Vetusto è anche quello che attribuisce agli altri l’attitudine naturale a opprimere, schiavizzare, far violenza al genere femminile. In realtà, lo stupro, come il femminicidio, è trasversale alle classi, agli ambienti sociali, alle culture, alle appartenenze religiose, alle nazionalità, ma comune a un solo genere: quello maschile. Inoltre – lo sappiamo bene- in Italia, come a livello mondiale, la maggior parte delle violenze sessuali e dei femminicidi si consuma nell’ambito di relazioni di prossimità. Da decenni il movimento femminista italiano non fa che richiamare l’attenzione sullo scandalo di questa violenza endemica e del sistema che la favorisce.
Mentre le donne conquistano margini crescenti di libertà e autonomia, poco muta la discriminazione di genere. Anzi, è proprio la conquista di quei margini, in assenza di una rappresentazione pubblica condivisa dell’eguale diritto, dignità, valore del genere femminile, che spinge una parte del mondo maschile, nella crisi della virilità tradizionale, verso frustrazione, rancore, desiderio di punire le donne.

 

Fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/2003220535